Dokument-Nr. 7113

[Erzberger, Matthias]: I metodi di guerra degli Inglesi e dei Francesi nel Togo e nel Camerun. I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri dei Francesi nel Dahomé, vor dem 20. Juni 1917

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Indice – Sommario.

Introduzione.

Scopo precipuo della guerra mondiale. – La distruzione della potenza politica e commerciale della Germania nel mondo. – La lotta a viso aperto. – L'idra della menzogna. – La lotta economica. – La lotta contro l'energia nazionale tedesca. – La condotta della guerra nelle colonie da parte dell'Inghilterra e della Francia rientra nel sistema. – La reputazione della razza bianca gravemente compromessa. – L'articolo 11 della Convenzione del Congo del 26 febbraio 1885. – La repulsa della proposta tedesca. – La spinta decisiva data dall'Inghilterra.

A. Condotta delle truppe anglo-francesi nel Togo e nel Camerun. I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri degli Inglesi.

Metodi di guerra inglesi e francesi nel Togo e nel Camerun. – Imprigionamento della popolazione bianca tedesca. – Il trasporto nella cattività. – Insulti e maltrattamenti. – Promesse non mantenute. – Ufficiali inglesi. – Spogliazioni e saccheggi. – Sequestri appropriazioni indebite. – Distruzione di chiese cattoliche. – La superiora della missione pallottina minacciata e malmenata. – Effetti della guerra coloniale per le missioni cristiane dell'Africa. – Prigionie nel Togo nel Camerun e nei campi di concentrazione delle colonie africane inglesi. – Le condizioni del
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trasporto forzato dei prigionieri in Inghilterra. – La prigionia su suolo inglese. – Continuità del sistema.

B. I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri dei Francesi.

L'odio istintivo della Francia. – 400 Tedeschi del Togo e del Camerun trascinati nel Dahomé. – Ragioni per la scelta della più insalubre colonia tropicale dell'Africa occidentale. – Continuazione del sistema brutale nel Marocco, nell'Algeria e nella Francia. – Le deposizioni testimoniali nel promemoria della Segreteria dell'Impero per le colonie.

I. Campi di concentrazione sulla costa del Dahomé.

In Cotonou, Porto Novo e Widah.

II. Campi di concentrazione nell'interno del Dahomé.

1. Savé – Parakou.

2. In marcia verso Kandi-Gaya.

La marcia forzata nei tropici. – Esposizione di scimmie. – La risposta del Governatore generale in Dakar. – "Coûte que coûte". – Principio della via crucis dei prigionieri tedeschi nel Dahomé. – Marcia senza mangiare e senza bere sotto il cocente sole tropicale. – Gli ammalati e gli inabili a camminare. – "Tout le monde marche!" – Arrivo in Kandi. –Proseguimento della marcia verso Gaya. –
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3. Nel campo di Gaya.
800 chilometri dalla costa del Sudan francese. – Capanne di paglia senza un mobile. Insetti schifosi. – Trattamento "senza clemenza". – Mezze razioni. – L'acqua da bere – Gli ammalati e l'assistenza sanitaria. – "Comme des princes et des grand seigneurs".

4. Il campo di Kandi.

"Morte degli europei". – Tuguri di loto. – Lavori forzati. – La prigione del campo. – L'assistenza sanitaria dei negri e dei prigionieri. – Soppressione dei campi di Gaya e di Kandi.

5. Il campo di Abomé.

I Tedeschi del Camerun. – La posizione di Abomé. – La masseria di un ex capo tribù del Dahomé. – L'amministrazione e il personale del campo. – Alloggio. – Duri lavori forzati. – I più colti fra i prigionieri sottoposti di preferenza alle fatiche più gravi. – Al lavoro. – Il ripulimento del paese dalle sterpaglie e dalle canne con le mani. – Senza l'elmo tropicale. – Biancheria, vestiario e calzature in pezzi. – La coperta o la camici a invece dei calzoni. – Le pulci della sabbia e i piedi. – Divieti di star dritti
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e di asciugarsi il sudore. – Deficienza d'acqua. – Vitto scarso. – Niente pane. – Affamamento metodico. – Le cassette della spazzatura e i cibi dei negri. – Maltrattamenti crudeli. Colpi di calcio di fucile e bastonate. – Prigionieri svenuti vengono costretti a riprende il lavoro. – L'aiutante Venère. – Pugni, scudisciate, calci. – Condanna all'arresto di giorno e di notte. – Digiuno e lavori ributtanti. – Maltrattamenti degli ammalati. – Il "serrapollici", strumento di tortura medioevale. – Inasprimento della pena del serrapollici. – I superiori e i subordinati di Venère. – Il medico del campo un bruto come tutti i componenti l'amministrazione. – Pessime cure sanitarie. – Gli ammalati e la "torre della fame". – I ferri roventi applicati contro i dolori reumatici. – Gli infermieri negri. – Mancanza di qualsiasi protezione dei prigionieri. – Dietro le mura del campo. – Inutilità d'ogni ricorso e punizione dei ricorrenti. – Feroce trattamento dei nuovi prigionieri. – Loro iniziazione al campo di Abomé a colpi di staffile di nerbo d'ippopotamo. – Rigoroso divieto ai prigionieri di parlarsi e di tenersi in comunicazione. – Testimonianze di due medici tedeschi sul terribile stato dei prigionieri. – Soppressione del campo di Abomé per effetto delle misure di rappresaglia tedesche. –
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III. In viaggio verso l'Africa settentrionale.

1. A bordo dell'"Asie".

Nessun riguardo alla scossa salute dei prigionieri. – I prigionieri costretti a giacere sul nudo tavolato. – Nessuna medicina. – Il mangiare cotto e distribuite in secchie sudice.

2. A bordo della "Tibet".

La cinica dichiarazione del medico primario di Cotonou. – Nella stiva della nave dalle pareti e dal pavimento umidi. – Gli ammalati di malaria sulla nave. – Trattamento crudele.

IV. Nel Marocco e nell'Algeria.

1. Nel campo di Mediouna.

Mesi e mesi senza paglia e senza coperte. – I panni d'inverno non sono distribuiti ai prigionieri. – Gli ammalati di febbre costretti a lavorare. – Casi di febbre ittero-ematurica. – Il "Canile", la tenda-castigo. – Campi di punizione. – I commissari svizzeri fatti contenti e gabbati.

2. Il campo di Medea (Algeria).

Gli ufficiali alloggiati in un deposito di foraggi. – Uomini e cavalli insieme in una stalla. – Vitto insufficiente. – Interdizione
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d'ogni commercio epistolare. – Sgombero dei campi dell'Africa settentrionale e trasferimento dei prigionieri in Francia.

V. In Francia.

Cattivi trattamenti durante la traversata. – Alloggio e vitto insoddisfacenti pure in Francia.

Conclusione.

La spedalizzazione dei prigionieri del Dahomé nella Svizzera l'unico modo di migliorare la loro sorte. – Il Governo francese non vuol saperne, nonostante le lagrimevoli condizioni di salute dei prigionieri. – Lo scopo abominevole della Francia raggiunto, ma l'odio trionfa sulla fredda riflessione. – La crudeltà praticata per la crudeltà. – Nessuna ragione attenuante per i fatti del Dahomé. – Le pacifiche disposizioni dei Tedeschi del Togo e del Camerun. – Torture
invece dell'assassinio. – Un discorso dell'amministratore di Abomé. – Non solo tolleranza ma istigazione e favoreggiamento delle inaudite crudeltà da parte delle autorità superiori francesi. – La cinica sfrontatezza del Governo francese. – L'aiutante Venère e gli altri carnefici esecutori dalla volontà del Governo francese. – Nessun servizio divino, nessun libro di preghiere tollerato in Abomé. – L'ordine di Venère di mandare buone notizie. – Il Venère promosso in ricompensa dei meriti acquistatisi. – Il Governo lo avanza di grado invece di fargli il processo! – La colpa indelebile della Francia. – Il valore della missione inci-
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vilitrice della Francia. – L'abisso della bestialità francese. – I fatti del Dahomé un criterio assoluto per giudicare la Francia. – Ipocrisia delle gazzarre di stampa inscenate dalla Francia contro pretesi orrori dei suoi nemici.
26  Allegati.
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Introduzione.

Scopo precipuo dell'immane guerra di coalizione contro l'Impero germanico è la soppressione dell'importuna concorrenza tedesca in tutti i campi dell'attività civile, la distruzione della potenza politica e commerciale della Germania nel mondo. Con questa mira l'Inghilterra e la Francia hanno da lunga mano ordita la guerra che da quasi tre anni mette il mondo a soqquadro.
Né solamente si volle tentare di debellare la Germania, coll'impiego di legittimi mezzi di lotta sui campi di battaglia europei. L'Inghilterra e la Francia sapevano che ciò non sarebbe loro riuscito mai, e che anche in tale ipotesi non avrebbero conseguito per intero il loro scopo.
Sin dal principio, quindi, si fece ricorso a tutta una serie di altri armi, dirigendole, per così dire, concentricamente contro l'esistenza tedesca, contro le vite, i beni e il credito tedeschi, dove e quando se ne offrisse l'occasione. Il dragone della menzogna e della calunnia venne aizzato in tutti i paesi della terra a svalutare ogni idea ed opera tedesca del presente e del passato, a screditare la Germania agli occhi dell'estero. La lotta economica contro il popolo tedesco, la proprietà privata e il commercio tedeschi fu intrapresa su tutta la linea con raffinata ferocia. I Tedeschi, dei quali le Potenze occidentali poterono impadronirsi, borghesi o soldati, vennero trattati in una maniera che dimostra chiaramente il propo-
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sito di inoculare almeno in una parte del popolo tedesco, e per essa in tutto il rimanente, il veleno di malattie incurabili, i germi della degenerazione fisica, in guisa da indebolire tutte le energie produttive del popolo tedesco e renderlo incapace così di far concorrenza agli altri popoli. Nulla quanto lo condotta della guerra nelle colonie da parte dell'Inghilterra e della Francia rivela con maggiore evidenza la connessione dei due propositi di abbattere la Germania come Potenza mondiale e di distruggere, con un trattamento addirittura barbaro, sudditi tedeschi, vite tedesche. L'intenzione delle Potenze occidentali di strappare alla Germania il frutto del suo lavoro e di scalzare il suo credito nel mondo corre qui proprio agli occhi. Si tratta d'un'opera sistematica i cui mezzi sono la spogliazione e l'umiliazione senza limiti dei sudditi dell'Impero. E nell'attuarlo questo sistema le Potenze occidentali non hanno esitato un attimo a compromettere in misura oltremodo pericolosa la reputazione della razza bianca.
Per evitare di esporre a danno la reputazione della razza bianca, e le conseguenze che si manifesteranno, nella loro pienezza, solo dopo la guerra, e, secondo ogni probabilità, si ritorceranno contro i loro autori e nuoceranno assai all'opera delle missioni cristiane nell'Africa, la Germania, al principio della guerra, nell'interesse delle nazioni aventi nell'Africa possedimenti coloniali, aveva proposto ai suoi nemici l'applicazione dell'articolo 11 della Convenzione del Congo, del 26 febbraio 1885. Secondo questo articolo i territori nei quali gli Stati belligeranti esercitano diritti di sovranità o di protettorato sono considerati, per la durata della guerra, neutrali: i belligeranti rinunziano ad estendere in essi le ostilità
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o a servirsene di base di operazioni militari.
L'accettazione di questa proposta avrebbe impedito le Potenze occidentali dall'effettuare l'intenzione sopraccennata. Quindi l'Inghilterra, la Francia e il Belgio la respinsero; anzi l'Inghilterra, come facilmente si comprende, diede la spinta decisiva giacché essa soprattutto aveva interesse di rovinare nell'Africa, dove e quando possibile, il nome e la potenza della Germania.
Un'immensa sciagura venne così attirata sui possedimenti coliniali germanici del Togo e del Camerun e sul corpo e l'anima dei Tedeschi colà viventi.
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A. Condotta delle truppe anglo-francesi nel Togo e nel Camerun. – I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri degli Inglesi.

In Inghilterra e Francia ebbero le loro buone ragioni di cominciar nei possedimenti coloniali tedeschi del Togo e del Camerun l'attuazione delle loro intenzioni. In questi possedimenti, infatti, la forza armata consisteva unicamente di un esiguo numero di soldati indigeni comandati da ufficiali bianchi e destinati a funzioni di polizia, ossia al mantenimento dell'ordine e della pubblica sicurezza. Quindi la Germania non potè mai pensare seriamente ad un attacco alle colonie limitrofe dei nemici, come, difatto, non vi pensò mai. Ma appunto perciò le Potenze occidentali presero qui l'offensiva e danneggiarono la reputazione della razza bianca offrendo agli indigeni lo spettacolo d'una lotta fra bianchi. Questo nocumento della reputazione della razza bianca divenne però specialmente grave allorché gli alleati inglesi e francesi misero ad effetto i loro metodi di guerra contro la Germania.
Calpestando il diritto internazionale e violando le loro stesse promesse circa la protezione delle persone e della proprietà privata, essi menarono via prigioniera, scortata di soldati di colore, quasi tutta la popolazione bianca del Togo e del Camerun non partecipante alle ostilità. Senza riguardo alla loro qualità, funzionari, commercianti e piantatori viventi da
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anni nei tropici, missionari, medici, donne e bambini vennero catturati e condotti via da Lome, Camina e Atakpame nel Togo, da Duela, dalle montagne del Camerun, delle contrade lungo la strada ferrata settentrionale e centrale e dalla costa meridionale nel Camerun. Pure per donne allattanti o incinte non si fece eccezione.
Il trasporto avvenne poi in circostanze punto corrispondenti ai princìpi di umanità come al rapporto della razza bianca verso la nera. I prigionieri vennero umiliati proprio nei luoghi che erano già stati il campo della loro attività professionale. Soldati negri ingiuriarono e malmenarono i prigionieri, e gli ufficiali e i funzionari inglesi e francesi non solo li tollerarono ma presero parte diretta alle violenze e agli insulti, dando un pessimo esempio ai loro subordinati bianchi e neri. Un simile trattamento dovettero, per esempio, patire, tra gli altri, i prigionieri di Camina e di Atakpame nel Togo e di Duala nel Camerun, sebbene il comandante supremo inglese nei negoziati per la resa avesse garantito loro protezione della persona e trattamente mite. Citeremo solo due esempi per dimostrare quanto duramente gli Inglesi agissero nei trasporti di privati borghesi. Allorché la moglie del direttore commerciale della "Westafrikanische Pflanzungsgesellschaft" in Viktoria (Camerun) pregò un ufficiale inglese a farle ritirare un baule di sua proprietà dalla nave ancorata dinanzi a Viktoria, l'ufficiale respinse la preghiera della incinta signora dicendo che sarebbe stato più giusto di condurre tutte le donne tedesche in un'isola e d'impiccare senz'altro tutte le incinte. Alla stazione ferroviaria di Bambellion (strada ferrata del Camerun settentrionale) un ufficiale inglese fece salire
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quattro donne tedesche con due bambini in un carrozza, che, con i freni aperti, fu lasciata correre sopra un binario in forte pendenza e tutto a curve. Per timore che la carrozza nelle curve uscisse delle rotaie, le donne ne saltaron giù con i loro bambini e si ferirono gravemente.
Dell'assenza dei Tedeschi dalle loro case e dalle loro terre i soldati inglesi e francesi approfittarono per commettere gravi abusi contro la proprietà privata, per saccheggiare e rubare. Aziende commerciali ed agricole, negozi ed abitazioni private furono depredate e messe a soqquadro. Armadi, casse, bauli e simili vennero scassinati e vuotati, raccolte e preziosi istrumenti scientifici distrutti. Perfino ufficiali inglesi non si vergognarono d'impossessarsi di cose lasciate incustodite da Tedeschi. Ciò che non venne rubato e distrutto, se convertibile in denaro, venne sequestrato e venduto per poca moneta o dato via anche gratis senza nemmeno esigere una ricevuta. Quanto ai prigionieri stessi si strapparon loro di dosso capi ai vestiario, anelli, orologi e oggetti simili secondo l'usanza ben nota dell'esercito francese nei riguardi dei prigionieri di guerra tedeschi. Persino il poco bagaglio che alcuni Tedeschi poterono portar seco nella prigionia venne svaligiato: ufficiali o impiegati inglesi non si vergognarono di ciò perfino nelle visite di ufficio. La circostanza che nemmeno le chiese e gli altari furono risparmiati conferma l'assoluta mancanza d'ogni ritegno e d'ogni distinzione nelle spogliazioni e ruberie. Sulla fine dell'ottobre 1914 soldati anglo-francesi aprirono a forza, nella chiesa dei missionari pallottini in Edea (strada ferrata del Camerun centrale) gli sportelli del tabernacolo, fecero a pezzi le mense degli altari, frantumarono statue di marmo e
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fecero a brandelli panni di seta. La superiora della missione pallottina venne trascinata brutalmente per il velo e minacciata col coltello da un soldato di dolore in presenza di un ufficiale bianco, che assistette alla scena ridendo. Tutta la proprietà della missione venne saccheggiata; il bestiame, macellato. Nell'ambulanza francese, la sera del 26 ottobre, P. Gippert rinvenne fra pezzi sanguinolenti di carne delle pecore e dei maiali uccisi, indumenti sacerdotali, calici, biancheria di chiesa e capi di vestiario. (Allegato 1.) In Kribi (costa del Camerun meridionale) soldati francesi di colore profanarono e danneggiarono istituzioni ed edifici ecclesiastici. Penetrati nella chiesa cattolica, salirono sull'altare lo spogliarono delle candele, tolsero dagli armadi gl'indumenti sacerdotali e se li spartirono fra loro. (Allegato 2.)
Questi furono i primi effetti della guerra coloniale scatenata dalla Francia e dall'Inghilterra per le missioni cristiane nell'Africa.
Nel tempo che i Tedeschi dovettero trascorrere prigionieri nel Togo e nel Camerun come nei campi di concentrazione nelle colonie inglesi africane, vennero alloggiati e nutriti così male che la loro salute se ne risentì oltremodo.
I prigionieri di Camina e di Atakpame furono alloggiati per tre settimane sul piccolo trasporto inglese "Obuasi" ancorato nella rada aperta di Lome famosa per il mare a dune. Sulla sudicia nave, che aveva cabine solo per 48 persone, e vennero pigiati 250 uomini e donne nelle più deplorevoli condizioni. Tedeschi, e fra essi donne, bambini, e persino neutrali dovettero sopportare per lunghe settimane privazioni e umiliazioni d'ogni
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sorta nel campo di concentrazione di Duala (Camerun).
Allorché poi i prigionieri vennero condotti in Inghilterra non si tenne conto nemmeno delle più modeste esigenze circa il vitto e l'alloggio, l'igiene e il trattamento. Nauseante il cibo: l'acqua potabile scarsissima; nessuna o quasi nessuna comodità di lavarsi; il contegno degli inservienti di bordo detestabile; durezze e crudeltà all'ordine del giorno. Inoltre, poiché prima di partire non era stato permesso ai prigionieri di fornirsi a sufficienza di panni, essi soffrirono assai per il freddo invernale allorché giunsero nelle acque del nord. In Europa, in territorio inglese, durante il loro trasporto negli accampamenti, i prigionieri non vennero difesi da soprusi e violenze. Negli accampamenti poi non venne preso alcun provvedimento per accogliere umanamente i prigionieri malridotti in salute dal soggiorno nei tropici e dal lungo viaggio compiuto nelle sopradescritte condizioni. Malattie d'ogni specie furono l'immediata conseguenza di ciò.
Nel trattamento dei Tedeschi del Togo e del Camerun, sia al momento dell'imprigionamento, sia nelle varie tappe del loro calvario, è facile ravvisare metodo, sistema. Non si tratta, infatti, di eccessi e di arbitri isolati. I prigionieri vennero trattati tanto al principio che poi, nei luoghi più diversi, in sostanza allo stesso modo. Questa identità non può spiegarsi che con il proposito deliberato di distruggere in tal modo l'opera compiuta dai tedeschi nelle colonie africane e la loro reputazione. Animati da questo proposito, Francia ed Inghilterra gareggiarono nel Togo e nel Camerun nelle violazioni del diritto internazionale. I Tedeschi del Togo e del Came-
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run, prigionieri degli Inglesi, impararono a loro spese che cosa significhi cader nelle mani di un nemico spietato, che vuol dominare il mondo vicino e lontano.
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B. I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri dei Francesi.

Il trattamento fatto dagli Inglesi ai loro prigionieri fu, ad ogni modo, riprovevole più per la mancanza generale d'ogni riguardo che per l'intenzione manifesta di sottoporre gli sventurati a tormenti e torture corporali. Nonostante quanto pure essi dovettero soffrire, i prigionieri degli Inglesi furono almeno trasportati presto dall'Africa in Europa.
La Francia, invece, non sentì appagati i suoi sentimenti d'odio sino a tanto che non ottenne dall'Inghilterra la consegna di un certo numero di prigionieri di guerra e civili del Camerun e del Togo per dare, incrudelendo su di essi, una nuova prova della sua ferocia. Invece di trasportare in Europa questi circa 400 Tedeschi del Camerun e del Togo, la Francia li inviò nella sua più insalubre colonia dell'Africa occidentale, nel Dahomé, dove i prigionieri, con un sistema determinato sino nei minimi particolari per quel che concerne la salute, l'alloggio, l'alimentazione, il vestiario, il lavoro e il trattamento, furono, in certo modo, lasciati vivere solo quanto bastasse perché potessero, per dir così, centellinare la vita resa loro un inferno.
La Francia si è macchiata così di una colpa senza nome. Il Governo francese e le autorità coloniali francesi, che hanno grande esperienza delle condizioni di vita e di lavoro
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degli europei nelle regioni tropicali dovevano sapere che il Dahomé, la più infesta colonia tropicale dell'Africa, riuscirebbe fatale ai Tedeschi del Togo e del Camerun là condotti e sottoposti ai più duri lavori. Ma appunto per ciò i prigionieri vennero trasportati nel Dahomé e costretti ad abitare in luoghi che la malaria, la dissenteria e la febbre gialla hanno fatto proscrivere a tutti i medici. Il Governo francese sapeva che il clima tropicale non avrebbe mancato di esercitare i suoi effetti deleteri e a compiere pienamente l'opera di distruzione desiderata. Inoltre esso sapeva che ne' riguardi degli indigeni i Tedeschi non avrebbero potuto essere più vilipesi e denigrati che se costretti a compiere in tali condizioni i più duri lavori servili sotto la vigilanza di negri. Le autorità francesi non si vergognarono perciò di permettere che superiori bianchi malmenassero barbaramente i prigionieri alla presenza degli indigeni; di permettere, anzi, agli indigeni stessi di partecipare agli atti di ferocia, facendo eseguire da essi le pene corporali inflitte ai disgraziati. Le narrazioni dei prigionieri, reduci dal Dahomé, costituiscono una lettura proprio straziante. Nel Dahomé la ferocia fu spinta sino ai limiti estremi di cui uomini possono esser capaci. Ma il calvario dei Tedeschi, caduti nelle mani dei Francesi, non terminò nella famigerata colonia. Il trasporto nel Marocco e nell'Algeria e il soggiorno negli accampamenti di quei paesi non migliorò gran che la loro condizione. Ed anche durante il trasporto in Francia essi furono vittime dei più bestiali maltrattamenti.
Ciò che nelle pagine seguenti noi verremo dicendo sulle sofferenze dei Tedeschi del Togo e del Camerun, prigionie-
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ri dai Francesi, sulla costa nell'interno del Dahomé, nella Francia settentrionale e nel viaggio verso l'Europa, è ricavato dal copioso materiale testimoniale reso noto in un promemoria pubblicato recentemente dal Reichskolonialamt (segreteria dell'Impero per le colonie) e del quale diamo, tradotta letteralmente, in appendice una piccola parte. Nelle loro deposizioni giurate i Tedeschi del Togo e del Camerun fanno conoscere al mondo che cosa essi abbiano vissuto e sofferto e di che cosa una nazione, che si proclama "grande e generosa", abbia gravato la propria coscienza.

I. Campi di concentrazione sulla costa del Dahomé.

Il 27 agosto 1914 avvenne la resa di Camina presso Atakpame, nel Togo, al comandante inglese delle truppe anglo-francesi. La popolazione civile venne fatta prigioniera.
Il 18 settembre 1914, ossia tre settimane più tardi, i Francesi si fecero consegnare dagli Inglesi 180 Tedeschi del Togo che sino a questa data erano stati rinchiusi a bordo del vapore inglese "Obuasi". Alle donne maritate fu lasciata la scelta di recarsi, sotto la protezione inglese, sia in Inghilterra, sia in Olanda, o di rimanere presso i loro mariti in conformità delle condizioni di resa. Piena sicurezza che avrebbero raggiunto l'Olanda non fu però data alle donne. Le quali, in considerazione della incerta sorte dei mariti, preferirono tutte di seguirli nella prigionia.
Il 19 settembre questi Tedeschi del Togo, di cui 13
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accompagnati dalle mogli, vennero sbarcati in Cotonou, sulla costa del Dahomé, e rinchiusi in baracche fra le grida di scherno e di minacce dei molti bianchi e neri accorsi ad assistere allo sbarco.
Chi non ignora le condizioni d'alloggio dei prigionieri sul continente tremerà pensando a queste condizioni nelle colonie. In realtà le baracche dal tetto di lamiera ondulata, in Cotonou erano sprovviste di ventilazione ed avevano una sola porta chiusa di notte. Quanto alle latrine i prigionieri dovevano soddisfare i loro bisogni in stagne di petrolio collocate nelle stesse baracche così anguste che i prigionieri eran costretti a coricarsi vicino a simili recipienti,molti dei quali davan fuori o gemevano. Per letto i prigionieri non avevano che stoie, le quali, stese sul duro terreno, non servivano quasi a nulla, come le leggere coperte di cotone, insufficienti a proteggere dagli sbalzi della temperatura. L'aria nelle baracche era così appestata e la caldura tropicale così soffocante che molti prigionieri svennero e si ammalarono già la prima notte. Il vitto consisteva in cibi preparati male, senza pulizia (carne e jams, un tubero simile alla patata) e in quantità insufficiente. E come i prigionieri civili in Francia, durante il loro trasporto negli accampamenti, la maggioranza di questi Tedeschi del Togo doveva mangiare con le mani. I soldati di scorta, bianchi e neri, gareggiavano nel tormentare i disgraziati sottoposti alla loro vigilanza.
Similmente vennero trattati, dal 31 luglio all'8 agosto 1915, ufficiali e sottufficiali delle truppe coloniali del Camerun, condotti in Cotonou dopo la caduta di Garua. La fero-
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cia francese non conobbe ritegno neppure nei riguardi di persone rivestite di pubblica autorità, come il vice-Governatore del Togo e il console tedesco di Libreville. Allorché quest'ultimo giunse in Cotonou, insieme con i Tedeschi imprigionati presso Nola, nel Camerun, nonostante la malferma salute e la protesta del medico tedesco, dovette trasportare da se stesso, sotto il cocente sole tropicale, il suo bagaglio sino alla stazione, dove stramazzò sfinito. Egli morì dopo poche ore. (Allegati 3,4.)
Cotonou fu il centro donde i Tedeschi del Togo vennero distribuiti nelle varie regioni del Dahomé. Una piccola parte di essi fu mandata in Porto Novo, sulla costa; fra essi il vice-Governatore, 13 uomini con le mogli e alcuni prigionieri riconosciuti ammalati. Le condizioni climatiche e alimentari di Porto Novo non sarebbero state assolutamente cattive, ma il contegno dei soldati francesi rese l'esistenza dei prigionieri un continuo martirio, una continua umiliazione. I prigionieri, anche le donne, ad onta della parola d'onore loro data, furono sottoposti all'incessante e rigorosa sorveglianza di soldati neri. L'alimentazione potè dirsi al principio sopportabile giacché fu permesso ai prigionieri di comprarsi qualche cosa per integrarla. Più tardi, però, revocata questa licenza, l'alimentazione non fu più soddisfacente né quanto alla quantità né quanto alla qualità. Le autorità locali francesi lasciarono intendere che l'alimentazione era cattiva perché si voleva che gli uomini soffrissero nella prigionia. Un medico francese dichiarò, per esempio che per le donne si sarebbe fatto tutto ma che la presenza dei loro mariti lo impediva. La crudeltà verso le donne e i loro bambini giunse a tanto che i negozianti francesi di Porto Novo si rifiutarono di vendere ad esse latte per i lattanti.
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Nel marzo del 1915 i prigionieri vennero condotti da Porto Novo a Widah dove ebbero il permesso di lasciarsi preparare i pasti da un cuoco nero ma fu negato loro di provvedersi a sufficienza di viveri! Né quanto alla sorveglianza da parte dei negri subentrò un miglioramento. Perfino le donne vennero scortate da un negro recandosi al mercato o nei negozi a fare acquisti. In generale tutti i Francesi incaricati della vigilanza tennero sempre verso i prigionieri un contegno arbitrario e offensivo. (Allegati 3,7.)
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II. Accampamenti di prigionieri nell'interno del Dahomé.

1. Savé – Parakou.

Da Porto Novo sette coppie di sposi furono poi trasportate nell'interno del Dahomé, e cioè tre in Savé e quattro in Parakou. A ciascuno dei due gruppi fu assegnato un medico. Ma mentre i prigionieri in Savé non vennero a trovarsi troppo male (Allegato 24), le famiglie condotte in Parakou fecero per intero l'esperienza di tutte le tribolazioni proprie della cattività nelle colonie francesi. Nei barconi sui quali i prigionieri, con le loro mogli, scortati da soldati negri, vennero trasportati da Porto Novo in Cotonou, gli uomini dovettero, senza motivo plausibile, giacere sull'assito. Giunti in Cotonou, gli aguzzini di scorta li costrinsero a correre carichi del loro bagaglio, poi vennero rinchiusi in un'angusta prigione e le loro mogli nell'ospedale. Il viaggio verso Savé, in ferrovia, e di là verso Parakou, sopra un autocarro pieno zeppo, fu oltremodo penoso. In Parakou ad ogni due coppie di sposi fu assegnata una casa di loto, con alcune stoie, una lucernina e un vaso di argilla per tutta mobilia. Il mangiare venne cotto in una latta di petrolio. Più tardi le famiglie si cucinarono da sé i pasti, nella misura che fu reso loro possibile di procurarsi gli utensili necessari. Allorché, nel gennaio 1915, l'amministrazione del distretto mutò, i viveri divennero per lo più pessimi. Si
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pretese che i prigionieri mangiassero carne di bestie tubercolotiche, la cui vendita era stata proibita dalle autorità. I custodi francesi maltrattarono in mille modi i prigionieri. (Allegato 3)

2. In marcia verso Kandi-Gaya.

Ma nonostante tutte le sofferenze i prigionieri di Porto Novo, Widah, Savé e Parakou devono considerarsi, in certo modo, privilegiati. La maggioranza dei Tedeschi del Togo, i celibi (circa 150 uomini) furono assegnati alla stazione di Gaya sul Niger, che giace a 520 chilometri di distanza dalla stazione ferroviaria di termine di Savé. Prima d'essere condotti in Cotonou il medico francese dottor Mazat li sottopose ad una cosiddetta prova della loro resistenza alle fatiche della marcia. Ma ciò non fu che una formalità, come risulta dal fatto che pure persone evidentemente ammalate e deboli vennero dichiarate idonee.
Percorsi in ferrovia 260 chilometri, i prigionieri giunsero, il 21 settembre 1914, in Savé. Il trasporto era stato organato in modo che quasi come bestie rare essi fossero esposti alla curiosità degli indigeni. A questo principio aveva del resto reso omaggio pure il capitano dell'"Obuasi" allorché paragonò i trasporti dei prigionieri nell'interno del paese ad una esposizione di scimmie (monkey-show). Il treno si fermò in tutte le stazioni, perché gli indigeni, accorsi da ogni parte, potessero vedere i prigionieri. Alla stazione termine
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della linea, ossia in Savé, i disgraziati vennero ricoverati in rimesse aperte e capanne d'erba, e poiché si era loro permesso di prender seco soltanto un piccolissimo bagaglio, essi possedevano, quanto a vestiario e oggetti d'uso, solo ciò che si erano trovati ad avere indosso al momento della cattura e che in fretta avevan potuto mettere insieme. Inoltre una leggera coperta di cotone e una stoia di paglia.
Per effetto del terribile sole tropicale come delle cattive condizioni di trasporto e della pessima nutrizione, già durante questo viaggio in ferrovia, parecchi prigionieri si erano ammalati, di guisa che la marcia nell'interno del paese, con la quale stava propriamente per incominciare il calvario dei prigionieri avrebbe dovuto apparire una cosa impossibile. Per proposta dei medici tedeschi i prigionieri, vennero sottoposti a un nuovo esame delle loro forze fisiche. E perfino i capi-convoglio francesi dovettero ammettere che, dato lo stato di salute dei prigionieri, la disegnata marcia era una pretesa inaudita. Essi chiesero per telegrafo al Governo generale in Dakar che decidesse definitivamente se l'ordinata marcia nell'interno dovesse davvero attuarsi. La risposta giunse spietata come una sentenza di morte: la marcia doveva compiersi a qualunque costo.
Così ebbe principio il vero calvario dei prigionieri tedeschi del Dahomé.
La partenza fu fissata al 22 e 23 settembre 1914. I prigionieri vennero suddivisi in tre reparti. Ogni giorno si dovettero percorrere dai 20 ai 35 chilometri, segnando il ter-
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mometro dai 30 ai 50 gradi di caldo, al sole perfino 80. È vero, sì, che le marce incominciarono sempre alle due dopo mezzanotte, ma il caldo diurno non potè evitarsi giacché alle otto del mattino il sole dei tropici bruciava già inesorabile e paralizzava le forze dei prigionieri, in maggioranza ammalati e trascinantisi innalzi solo lentamente. I disgraziati Tedeschi non erano in nessuna guisa preparati a lunghe marce in clima tropicale, i più, anzi, già per effetto della precedente dimora nei tropici, che, come è noto, nuoce, senz'eccezione, alla salute degli europei, avevano perduto molto della loro vigoria fisica. Inoltre essi non vennero punto equipaggiati come una simile marcia avrebbe richiesto. A parecchi di essi le scarpe andarono presto in pezzi, cosicché dovettero camminare scalzi sulla terra infocata. Sandali di duro cuoio non concio, come usano i negri e che vennero dati loro per succedaneo, non fecero che coprir di ferite i loro piedi. A stomaco vuoto s'imprendeva la marcia e la si protraeva così sino a mezzogiorno. Né strada facendo era possibile estinguere la sete tormentosa giacché tra un luogo di sosta e l'altro non s'incontravano villaggi, né sorgenti d'acqua. Perciò i prigionieri non ebbero spesso ritegno di dissetarsi a pozzanghere d'acqua fetida e inquinata senza curarsi del pericolo cui si esponevano. Del resto, anche se in un villaggio, dove si fece sosta, si trovò dell'acqua, fu, di regola, acqua sporca e puzzolente. La sete dei prigionieri era però tale che non si lasciavano trattener dell'estinguerla da riguardi igienici. Il pasto quotidiano, fu allestito da sudici negri nei luoghi di sosta e nel modo più primitivo, e cotto per lo più, solo a metà e frammescolato con in-
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setti schifosi solo di controstomaco si poteva mangiarlo. E fosse almeno bastato a sfamare! Spesso i prigionieri, addirittura sfiniti, si sdraiarono a sera nelle luride capanne dei negri, senza rete che li proteggesse dalle zanzare e con solo una stoia di paglia per letto. E una volta preso sonno dormvano così profondamente che solo la furia di un violento temporale o un diluvio d'acqua, che allagava le capanne sì da doverne uscire, poteva riscuoterli.
Date queste privazioni e fatiche non è meraviglia che i prigionieri deperissero a vista d'occhio. Essi perdettero sino a 60 libbre di peso. Febbre malarica e dissenteria, esaurimento di forze e ferite ai piedi resero giornalmente quasi 50 di essi incapaci di tirare avanti. E nondimeno la massima parte anche di questi infelici dovette trascinarsi ancora. Solo pochi vennero fatti salire su autocarri o riposare in un'amaca. Un prigioniero, gravemente ammalato di febbre itero-ematurica, che per disposizione del medico avrebbe dovuto essere inviato sulla costa, fu nondimeno trasportato nell'interno del paese. Lo si caricò sopra un carro automobile carico di bagagli dove rimase esposto al sole tropicale mentre i soldati negri si ruzzolavano sguaiatamente sui sedili imbottiti del compartimento riservato alle persone.
Talvolta il comandante della scorta francese, conformandosi alla volontà aguzzina delle autorità centrali, ordinò: "Tout le monde marche!" E tutti i prigionieri, anche gli ammalati, furono costretti a camminare! E se gli ammalati, per debolezza, stramazzarono al suolo, vennero portati in amache
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alla testa della colonna per essere colà forzati di nuovo a camminare. Oppure gli incapaci a tirare innanzi vennero raccolti dai gruppi seguenti e, nonostante le proteste dei medici, costretti a colpi di calcio di fucile e con minacce a trascinarsi avanti.
Caratteristico per l'animo di un comandante francese (e per l'abiezione delle autorità francesi) è il fatto che egli non volle essere più a lungo lo strumento della ferocia dei capi. Egli dichiarò di non poter più prendersi sulla coscienza la responsabilità di simili marce forzate. Immediatamente egli venne sostituito in Parakou dal capitano Bosch.
Dopoché, nella maniera sin qui descritta, dei 520 chilometri da percorrere ne furono percorsi 270, il medico tedesco protestò con energia contro il proseguimento della marcia e, se non altro, egli ottenne con ciò di poter escludere circa 50 persone ammalate o senza scarpe, le quali vennero trasportate in autocarro sino a Kandi. Il rimanente dei prigionieri riprese la marcia in compagnia del medico tedesco. Allorché giunsero in Kandi, essi avevano percorso in 20 giorni, compresi 6 di sosta, 380 chilometri. In Kandi l'esaurimento degli infelici si mostrò in tale evidenza che fu giocoforza ai Francesi l'ammettere l'impossibilità della continuazione della marcia. Si fece, quindi, in Kandi una sosta di 14 giorni, ma sia le condizioni d'alloggio che il vitto non furono tali da rimettere in gamba uomini stremati. La mancanza di chinino e d'altre medicine fece poi sì che invece di un miglioramento nello stato di salute dei prigionieri si avverarono nuovi ca-
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si di malaria e di dissenteria. I medici tedeschi tornarono, quindi, a protestare contro il proseguimento della marcia. Invano! Il nuovo comandante del convoglio, capitano Bosch, ordinò, il 26 ottobre 1914, la partenza per Gaya sul Niger. Questo suo ordine neroniano emanato in esecuzione delle istruzioni del suo Governo, egli lo giustificò dicendo che "i prigionieri sono al di fuori del diritto delle genti". 60 prigionieri, che parvero meglio in grado di resistere alla dissenteria dominante in Gaya, ripresero il cammino. Inoltre tutti gli ufficiali, anche i sofferenti di dissenteria o che ne avevano già sofferto furono destinati a Gaya. Fu davvero una marcia infernale. (Allegati 3, 4, 5, 7.)

3. Nel campo di concentrazione di Gaya.

Gaya sul Niger, nel Sudan francese, è distante dalla costa 800 chilometri, in una regione assolutamente selvaggia. Il villaggio conta 500 abitanti indigeni e solo tre europei, né senza ragione. Infatti, Gaya ha una pessima fama per la sua malaria e la dissenteria endemica. Trattenersi all'aperto la sera è esporsi a pericolo mortale per gli sciami di zanzare. L'amministrazione francese, nonostante queste cose universalmente note, lasciò sino ad oggi i prigionieri tedeschi senza reti di difesa dalle zanzare.
Venti capanne di paglia, su piccolo spazio di terreno, costituirono l'accampamento dei prigionieri, circondato da una siepe di spini. Le capanne offrivano un rifugio più primi-
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tivo di quelle abitate dai negri più modesti. Esse non proteggevano né dalla caldura della stagione secca, né dai temporali della stagione delle piogge. Durante la stagione asciutta nell'interno delle capanne la temperatura fu di 40 fino a 46 gradi, pure durante la notte. Le capanne erano letteralmente vuote: non un letto, non un tavolino, non una sedia, non una catinella. I prigionieri dovettero coricarsi sulle stoie di paglia stese sulla nuda terra sicché vennero punzecchiati in tutto il corpo da scorpioni e formiche e morsi da serpenti. Più tardi essi cercarono un riparo dagli insetti costruendosi giacigli con rami d'albero e foglie di palme scoscesi da loro stessi. La poca biancheria e il poco vestiario che avevan potuto portar seco nella prigionia, si logorarono ben presto sicché mancando in Gaya la possibilità di rifornirsi, quasi tutti i disgraziati finirono per andar seminudi. Ufficiali e soldati, a piedi scalzi, dovettero spazzare da sé le capanne e rigovernar le stoviglie, cucinarsi e lavarsi la biancheria. Ova, latte e miele abbondavano in Gaya e venivano offerti a modico prezzo, ma ai prigionieri fu proibito severamente di comprarsi questi viveri sicché, per nutrirsi, non rimase loro che l'insufficiente, deficiente e monotono cibo del campo. Una domanda di miglioramento venne respinta con la dichiarazione che il Governo francese aveva ordinato che si trattassero i prigionieri "senza clemenza". Le mezze razioni furono di regola. Sino alla metà di decembre il caffè, il tè e perfino il pane mancarono affatto. Per bere i prigionieri non ebbero che l'acqua sudicia del Niger attinta a valle nei punti della sponda dove gli indigeni usavano bagnarsi.
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In conseguenza di queste pessime condizioni di alloggio, di alimentazione e d'igiene il deperimento dei prigionieri, già stremati di forza all'arrivo, fece naturalmente rapidi progressi. Il numero quotidiano degli ammalati di 35 a 50 su 80 prigionieri non rappresenta, quindi, nulla di strano. Il 70 % dei prigionieri si ammalò di dissenteria. La febbre malarica visitò almeno una volta tutti. Inoltre si ebbero otto casi di febbre biliare emoglobinurica. L'acqua da bere inquinata causò alla maggior parte dei prigionieri cronici disturbi di stomaco e degli intestini. Le medicine necessarie per prevenire e combattere efficacemente la malaria mancarono, soprattutto il chinino. Di strumenti chirurgici per mesi e mesi non si ebbe traccia tanto che, per esempio, un coltello da tasca dovette far le veci di bistùri. Un ufficiale ispettore francese giudicò questo stato di cose, in Gaya, pienamente soddisfacente. Il 17 marzo un ufficiale ispettore visitò l'accampamento. Interrogato se i prigionieri fossero davvero fuori del diritto delle genti, come il comandante Bosch aveva detto, egli rispose che i prigionieri in Gaya erano trattati "comme des princes et des grandssigneurs."
Le sollecitudini più amorose dei medici tedeschi non valsero gran che. E allorquando le ripetute lagnanze ottennero infine, dopo lungo tempo, nel trattamento dei prigionieri un lieve miglioramento, gl'infelici erano già ridotti in tali condizioni di salute da soggiacere affatto all'insalubre clima. (Allegato 4, 5.)

4. Il campo di concentrazione di Kandi.

"Morte degli europei", venne chiamato questo accampamento dagli indigeni. Le condizioni generali furono le medesime che in Gaya. I Tedeschi, spossati dalla marcia forzata da Savé a Kandi, giunti a destinazione non ebbero alcun modo di rimettersi in salute. Nelle prime settimane dopo il loro arrivo due prigionieri morirono per effetto di febbre ittero-ematurica. L'amministrazione francese non aveva pensato a nulla, ed anche i provvedimenti presi più tardi si dimostrarono insufficienti. I prigionieri furono alloggiati per tre ed anche quattro in una capanna di negri, di soli due metri e mezzo di superficie, che non offriva alcun riparo sufficiente dalla vampa del sole. Anche di notte il caldo in queste capanne era soffocante. Come in Gaya, non l'ombra di tavolini, sedie, zanzariere, letti. E come in Gaya formiche ed altri insetti diesero ai prigionieri continuo tormento. L'alimentazione fu cattiva: per gli ammalati addirittura orribile. Le razioni mai intere; la carne putrida; l'acqua da bere, che doveva essere bollita, fornita in così scarsa quantità che agli ammalati toccò a soffrir la sete.
Solo in capo a mesi giunsero filtri per la preparazione di acqua potabile. Di acqua, del resto, si ebbe per lungo tempo grandissima penuria.
A paragone di quelli di Gaya i prigionieri di Kandi vennero a trovarsi anche peggio per l'obbligo loro fatto di lavorare. Nonostante le energiche proteste dei medici tedeschi, addirittura commossi dallo stato di salute dei prigionieri, essi vennero costretti ai più duri lavori, come tagli d'alberi, scavi
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costruzione di strade. Per le mancanze più lievi e perfino sviste innocenti vennero severamente puniti, né si ebbe riguardo nemmeno agli ammalati di febbre. La pena d'arresto fu fatta scontare nella prigione per i negri dove, specialmente la notte, regnava un'afa soffocante e un'aria pestilenziale giacché il terreno, su cui le stoie dovevano venir stese, era imbevuto di materie escrementizie. Chinino ed altre medicine mancavan affatto. L'ospedale per i negri era relativamente ben corredato, ma medicine esso non ne fornì che in casi eccezionali. Appunto l'ostinato rifiuto di medicine dimostra come ci si tenesse alla morte dei Tedeschi. Un prigioniero, gravemente ammalato di febbre ittero-ematurica, dovette soccombere perché il medico tedesco non riuscì ad ottenere il desiderato corroborante cardiaco. Quando infine gli venne dato non fu più a tempo. Il tradimento della razza bianca da parte dell'amministrazione francese del campo giunse sino a non volere ammettere i Tedeschi nell'ospedale dei negri! I prigionieri ammalati vennero abbandonati come bestie nelle loro capanne. Ai medici tedeschi si permise di curare con gli strumenti dell'ospedale gl'indigeni ma non i loro connazionali. Conseguenza di ciò fu l'aumento continuo di ammalati. Dal 17 ottobre 1914 al 10 marzo 1915 di 64 prigionieri caddero infermi:
per malaria l'89 %
" febbre ittero-ematurica il 12 %
" dissenteria il 60 %
per grave catarro intestinale il 45 %

Nei mesi di marzo, aprile e maggio 1915 i campi di concentrazione di Gaya e Kandi vennero, a poco a poco, soppres-
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si. Gli ammalati, o per dir meglio, i prigionieri riconosciuti ammalati dell'amministrazione francese vennero trasportati sulla costa e di là, in parte, in Francia. Gli altri prigionieri, ossia la maggioranza, vennero condotti nel campo di Abomé quasi che le sofferenze già patite in Gaya e Kandi non bastassero. Che cosa questo campo di Abomé significasse per i prigionieri può dedursi da quanto segue. (Allegati 4, 7.)

5. Il campo di concentrazione di Abomé.

I patimenti sofferti dai Tedeschi del Togo nella marcia forzata Savé-Kandi-Gaya e negli accompagnamenti di Kandi e Gaya furono ben gravi ma tuttavia è impossibile paragonarli
alle pene indicibili cui i Tedeschi del Camerun vennero sottoposti, dal principio dell'ottobre 1914, dai loro aguzzini bianchi e neri di Abomé.
Il 27 settembre 1914 Duala era caduta nelle mani degli alleati anglo-francesi. Due giorni appresso 240 uomini della popolazione tedesca di Duala vennero trasportati, con l'equipaggio di vari vapori Woermann, col piroscafo inglese "Elmina", a Cotonou nel Dahomé. In maggioranza si trattò di persone affatto estranee alla guerra. Le condizioni d'alloggio, il vitto e il trattamento che si ebbero nei tre giorni di sosta in Cotonou furono i medesimi avuti dai Tedeschi del Togo pochi giorni prima. I Tedeschi del Camerun vennero poi condotti in ferrovia alla stazione di Bohikou e di là, a piedi, sotto il cocente sole tropicale, ad Abomé. La Marcia fu talmente
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forzata che parecchi soccombettero.

La posizione di Abomé. Abomé giace in una regione piena, calda e dove abbondano le piogge, sicché è un focolare di malaria e di dissenteria. Nella stagione delle piogge quasi ogni anno è visitata della febbre gialla. Per accampamento dei prigionieri il Governo francese designò la masseria principale dell'ex-capo tribù Behanzin, che negli anni intorno al 1880 fece parlar molto di sé, al principio del 1890 fu debellato dai Francesi ed esiliato nel Madagascar. La masseria si trovava in stato di piena devastazione. Le rovine e le loro immediate vicinanze erano coperte da erba e canne altissime. Delle capanne non rimanevano in piedi che i muri maestri.
Amministrazione del campo e personale. Il comandante del campo di Abomé era il commissario indigeno di Dahomé, maggior Beraud, che trasmise gli affari del campo al suo aiutante Venère. (1) Coadiutori di quest'ultimo erano il sergente Castelli, il vice-caporale Gianzelli e soldati indigeni. Nei primi tempi il campo fu anche soggetto all'amministratore di Abomé, il quale comminò ai prigionieri, per ogni mancanza, pene severe, e ingiunse ai soldati di fare largo ed energico uso delle armi. Egli istruì anzi personalmente i soldati nel maneggio efficace delle armi contro i prigionieri. A medico del campo fu designato il medico di Stato
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Maggiore francese dottor Longharé. Al principio del decembre 1914 il vice governatore di Dahomé, il segretario generale Sassias, visitò il campo e lo trovò par ogni verso un modello.
Alloggio. I prigionieri vennero ricoverati in capanne di loto scarsamente illuminate, infestate da zanzare ed altri insetti attirativi dalla penombra. Gli ospiti di ogni capanna furon tanti che a ciascuno non rimase a disposizione che uno spazio di appena 60 centimetri. Stoie di paglia sottili furono il loro letto. Zanzariere e legname per costruirsi letti di assi vennero loro forniti solo verso la fine della prigionia. Della latrina aperta i prigionieri dovettero fare a mezzo con i soldati negri ed altri indigeni e servirsene in cospetto delle negre lavoranti nel cortile.
Duri lavori forzati. I primi quattordici giorni, nei quali i prigionieri non dovettero che spazzare il campo, furono relativamente sopportabili. Dal giorno però in cui l'aiutante Venère entrò in carica cominciò un periodo del più tremendo martirio. Venère era stato già per 10 anni custode nella colonia di deportati della Nuova Caledonia dove aveva avuto modo di sfogare la sua naturale ferocia. L'aver scelto un tal uomo per un posto così importante per la vita dei prigionieri caratterizza le autorità francesi. Prima d'ogni altra cosa il Venère ordinò duri lavori forzati per tutti i prigionieri, senza eccezione alcuna. Il lavoro non venne mai remunerato. Il Venère sottopose con predilezione alle più gravi fatiche i più colti fra i prigionieri.
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Laureati, missionari, piantatori, commercianti, fochisti e mozzi dovettero, nonostante la diversità della loro attitudine fisica e la grande diversità delle loro forze corporali fornire la medesima misura ai lavoro. Nell'accampamento essi dovettero demolire a colpi di piccone muri di loto di straordinaria spessezza e durezza; fuori dell'accampamento costruir strade, appianare superfici, dissodare campi e rimettere a coltura antiche piantagioni di cotone. Inoltre i prigionieri dovettero costruire una prigione, l'abitazione per l'aiutante Venère e la sede dell'ufficio.
Al lavoro. Specialmente duro fu il lavoro di ripulimento del terreno dalle sterpaglie e dalle canne, giacché, in mancanza di strumenti, fu dovuto compiere con le mani. Ben presto gli spini e le canne taglienti coprirono le mani dei prigionieri di sangue e di ferite. Anche in condizioni normali un simile lavoro, nei tropici, sarebbe stata una pretesa eccessiva. Ma nelle circostanze in cui i prigionieri lo dovettero compiere non potè a meno di aver effetti perniciosissimi per la loro salute. Coperti a mala pena, i prigionieri non erano protetti né dai raggi del sole, né dalle frequenti burrasche. Molti non avevano neppure un elmo. La poca biancheria e le scarpe alte che avevano portato seco furon presto consumate, e poiché non si rifornì loro nulla i disgraziati dovettero aggirarsi con la biancheria, gli abiti e le scarpe in pezzi. Ad alcuni, anzi, non rimase altro che avvolgersi i fianchi con la coperta di cotone, come gli indigeni, e ciò particolarmente nei giorni di bucato, giacché non avevano nulla per cambiarsi. Molti finirono per portare la camicia invece dei calzoni. Al-
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tri, per non andare scalzi, ricorsero a sandali di cuoio non concio, che sbucciarono loro i piedi. L'andare scalzi o coi piedi male protetti fece sì che le pulci, di cui era piena la sabbia, si annidassero sotto le unghie delle dita cagionando emfiagioni e suppurazioni dolorose.
Il lavoro dei prigionieri fu poi reso più gravoso da mille crudeli prescrizioni. Agli adibiti all'estirpazione delle erbe parassite fu vietato di erigere la persona e di piegarsi nei ginocchi. Pure d'asciugarsi il sudore fu loro proibito e altresì di riposarsi un istante. I prigionieri dovevano lavorare curvati, facendo il massimo sforzo. Perfino nelle pause meridiane e le domeniche essi furono obbligati a trasportar gravi pesi dalla stazione di termine della linea ferroviaria rurale Bohikou-Abomé, distante un chilometro.
Acqua, vitto. Di acqua i prigionieri furono forniti assai scarsamente ad ogni modo non nella misura che sarebbe stata necessaria per lavarsi dopo il lavoro compiuto nella caldura tropicale. Quanto al vitto esso sarebbe stato insufficiente pure se i prigionieri non avessero dovuto compiere i duri lavori in parola. La mattina una minestra d'acqua, di solito acida perché cotta già il giorno avanti; a mezzogiorno e alla sera insipide e poco pulite vivande di jams o di fagioli, con un po' di carne preparata dai cuochi negri. Pane i prigionieri ne avrebbero dovuto ricevere ogni giorno mezzo chilo, ma di fatto non ne ebbero tanto quasi mai. L'acqua dovettero berla così come era, non filtrata, e però sudicia e inquinata da insetti e da larve. Nel decembre 1914 l'aiutante Venère si assunse pure la
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cura dell'alimentazione: cominciò così un vero affamamento metodico che si protrasse sino all'aprile 1915. Le razioni di carne vennero ridotte a pochi grammi a persona. Il vitto destinato per dieci prigionieri bastò tutt'al più per cinque. Settimane e settimane non si vide traccia di pane. Del resto il pane che talvolta si distribuì ai prigionieri fu immangiabile perché di farina guasta. Una volta Venère pretese che i prigionieri mangiassero carne di animali morti per effetto di carbonchio maligno. Spinti dalla fame i prigionieri si cercarono spesso nella casse della spazzatura qualche cosa da mangiare, o comprarono delle venditrici sul mercato i cibi degli indigeni, nauseanti e nocivi per gli Europei.
Crudeli maltrattamenti. Durante il lavoro, ad anche in altre ore, i soldati negri e i custodi bianchi, armati di fucili, randelli e scudisci non risparmiarono percosse ai prigionieri. A colpi di calcio di fucile, a bastonate, a pugni e calci essi vennero costretti a lavorare senza tregua dai soldati negri, sotto gli occhi e per ordine dei custodi bianchi. Asciugarsi il sudare significò procurarsi un colpo di randello sulle spalle. La più piccola svista, il minimo rallentamento nel lavoro fu subito punito dai negri con minacce, battiture e insolenze. Se un prigioniero, per l'eccessiva fatica sotto il sole tropicale, stramazzò a terra i negri gli furon sopra e con ogni sorta di male parole e violenza lo costrinsero a rialzarsi. Solo se tutto ciò non ebbe risultato l'infelice venne trasportato via per lo più privo di sensi.
L'aiutante Venère. Le crudeltà dei negri vennero però di molto superate da quelle dei custodi bian-
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chi e soprattutto dell'aiutante Venère. Per il più futile motivo essi diluviarono sui poveri prigionieri punizioni, vessazioni e torture. In nessun momento, nemmeno durante la notte, i disgraziati furon sicuri di non ricevere dai Francesi pugni, scudisciate, calci e via di seguito. La prigione fu di solito zeppa, sicché il solo rimanervi, dato il caldo tropicale, significò un vero martirio. Ma come ciò non bastasse la pena dell'arresto fu spesso aggravata con quella del digiuno o con l'obbligo di compiere lavori specialmente ributtanti. Per esempio prigionieri puniti dovettero spesso vuotare colle mani i recipienti pieni di escrementi degli ammalati di dissenteria…
La crudeltà dell'aiutante Venère fu addirittura mostruosa. Sempre con uno staffile di nerbo di bue in mano, egli batté a capriccio i prigionieri. Se ubbriaco, anche in viso e sulla testa, sulle spalle nude come sulle braccia e sui piedi. Il Venère non lesinò pure ai prigionieri pugni in faccia e calci. Non di rado egli spinse un prigioniero a colpi di staffile verso la prigione o nel suo ufficio dove seguitò a batterlo. Le ferite originate da questi colpi furono spesso così gravi da richiedere le cure del medico e da sfigurare per lungo tempo o per sempre i disgraziati. Il Venère non ebbe ritegno di costringere a staffilate a lavorare pure malati e convalescenti. Né pago di ciò per tormentare i prigionieri, egli riesumò pure uno strumento di tortura medioevale.
Il "serrapollici". Questo serrapollici fu il più terribile strumento di tortura per i prigionieri. Girando una vite dello strumento, i due pollici del condannato venivano premuti così da inturgidire e perfino da scoppiare.
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Una simile tortura Venère l'applicò spasso per lunghe ore, talvolta anche per notti intere. I torturati finirono quasi sempre per smarrire i sensi. Tolti dallo strumento di torture i pollici rimanevano per lungo tempo come atrofizzati. Al serrapollici il Venère ricorse di preferenza ogni volta che volle malmenare in modo tutto speciale i prigionieri con lo staffile o con i pugni. Egli poté così sfogarsi a piacere contro uomini assolutamente inermi. Per inasprire ancora la tortura del serrapollice il Venère fece spesso congiungere due prigionieri cui era stato applicato lo strumento, con una catena fermata ai due serrapollici. Nel mezzo della catena fu sospeso un ciocco di legno e i prigionieri, messi a riscontro, dovettero colle braccia tese tener sospeso in aria questo ciocco. Se gl'infelici, non potendone più per la stanchezza o per lo spasimo, fecero ricadere le braccia, il Venère o i suoi satelliti negri li batterono sino a tanto che rialzarono le braccia e il ciocco oscillo di nuovo sospeso in aria. Tali torture si protrassero per ore ed ore e furono all'ordine del giorno.
I superiori e i subordinati di Venère. Tanto il sergente Castelli che il vice-caporale Gianzelli tennero mano alle efferatezze del Venère e fecero largo uso dei loro staffili. Riguardo ai superiori invece di inibirli, approvarono gl'inauditi maltrattamenti. Il maggiore Beraud, alla presenza dei prigionieri, insegnò ai soldati negri a percuotere con il calcio del fucile e a dar bastonate. Il tenente Bernard batté col suo scudiscio un Tedesco del Togo appena giunto in Abomé.
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Il medico. Un medico avrebbe dovuto riconoscere a prima vista le sofferenze dei Tedeschi, il loro pietoso stato di salute, la ferocia inumana dei maltrattamenti loro inflitti. Ma il dottor Longharé aveva i medesimi brutali sentimenti di tutti i componenti l'amministrazione del campo. Allorché un giorno gli fu condotto un prigioniero venuto meno sul lavoro, egli non se ne diede carico, ma continuò a bere allegramente e a conversare sebbene lo si fosse avvertito del grave stato dell'infelice. Come i suoi colleghi dei campi di concentrazione in Francia egli non ebbe scrupolo di dichiarare idonei al lavoro prigionieri gravemente infermi. Né egli protestò mai contro il Venère quando a colpi di staffile cacciò fuori dalle capanne gli ammalati costringendoli a trascinare gravi pesi.
Cure sanitarie. Da una tal perla di medico non potevano certamente aspettarsi cure serie, e infatti, specie la malaria e la dissenteria, furono combattute da lui in modo del tutto empirico. Agli ammalati gravi trasportati nella capanna-infermeria, egli assegnò di regola, innanzi tutto, tre giorni di "régime spécial" cioè a dire di dieta assoluta. I prigionieri battezzarono perciò questa capanna la "torre della fame", e se ammalati preferirono di dissimularlo e di esporsi ad un peggioramento, oppure spinti dalla fame si trascinarono di nuovo a lavorare senza attendere di essere guariti. Reumatismi e nevralgie il dottor Longharé li curò con i noti ferri roventi, che non vennero mai applicati senza produrre scottature ai pazienti. Del resto l'assistenza degli ammalati fu affidata ad infermieri negri, i quali, naturalmente, non avevano un'idea di igiene e di nettezza. Le iniezioni di chinino fatte da
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loro ebbero sempre per conseguenza infiammazioni e suppurazioni.
Mancanza di protezione dei prigionieri. Contro tali insopportabili condizioni i prigionieri non avevano modo di intraprendere alcunché. Segregati dal mondo dietro le alte mura del campo, nulla trapelava fuori delle loro inaudite sofferenze, sicché erano interamente alla mercé dei loro carnefici. Ma poi dove trovare il coraggio di lamentarsi? Appena giunti in Abomé, l'amministratore, come in seguito, più volte, il comandante Venère, li fece avvertire che un diritto di reclamare presso i superiori non esisteva per essi, che se osassero di ricorrere verrebbero puniti. Il maggiore Beraud dichiarò ai prigionieri che al minimo tentativo di resistenza trentamila negri si sarebbero scagliati a un suo fischio su di loro e li avrebbero fatti a pezzi. Unicamente per timore delle conseguenze e sperando nei miglioramenti ipocritamente promessi da Venère i prigionieri si astennero dal querelarsi dinanzi all'ufficiale superiore che, nel gennaio 1915, ispezionò il campo.
Naturalmente i miglioramenti promessi da Venère non si avverarono sicché, verso la fine del febbraio 1915, i prigionieri osarono di richiamare a voce l'attenzione di un nuovo ufficiale ispettore sulla loro intollerabile condizione. Un reclamo scritto era stato confiscato da Venère. Tutto rimase però come prima, anzi i prigionieri che avevano parlato in nome dei compagni furono condannati a 15 giorni di arresto aggravato da digiuno e lavoro specialmente duro. Parimenti infruttuose rimasero le lagnanze orali e scritte rivolte, più tardi, dai prigionieri presso altri ufficiali ispettori. L'allegato 20
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fornisce un preciso ragguaglio sugli sforzi compiuti dai prigionieri per ottenere un miglioramento della loro sorte terribile.
Arrivi di nuovi prigionieri. Nei mesi di marzo, aprile e maggio 1915 giunsero al campo di Abomé 15 Tedeschi del Camerun, provenienti dai combattimenti presso Nola; alcuni Tedeschi del Togo provenienti dall'ospedale di Cotonou e circa 80 Tedeschi del Togo provenienti dai soppressi campi di Kandi e Gaya, sicché il totale dei prigionieri concentrati in Abomé salì a 300. Ogni arrivo di nuove vittime fornì al Venère l'occasione di nuove crudeltà. I Tedeschi del Camerun il Venère li fece inginocchiare, poi, gridando ai soldati negri: "vedete, così noi trattiamo i Tedeschi, essi sono ora i nostri schiavi (boys)!" cominciò a menare alla cieca colpi sugli inginocchiati con il suo staffile di nerbo d'ippopotamo impugnato dalle parte più sottile. Anche i Tedeschi del Togo furono "iniziati", come si espresse il Venère, con lo staffile di nerbo d'ippopotamo, alla vita nel campo di Abomé. Il bruto seguitò a fare uso larghissimo sia del suo staffile come del "serrapollici". Egli costrinse pure i Tedeschi del Togo ai più faticosi lavori nel caldo asfissiante dei tropici e li lasciò alla balìa della ferocia dei negri. Inoltre egli vietò severamente ogni commercio orale e d'altro genere con i Tedeschi del Camerun. "È proibito parlare con i prigionieri di un'altra capanna. A nessuno e lecito di mettersi in relazione con gli ospiti d'un'altra capanna e tanto meno di entrarvi. Pene: soppressione del vitto; "serrapollici"; verghe e prigione." Anche i Tedeschi del Togo vennero ammoniti di non fare richiami se non volevano esporsi a severe punizioni, sicché essi pure si sentirono ben presto assolutamente indifesi.
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Stato dei prigionieri. Descrivere lo stato dei prigionieri è quasi superfluo, dopo il sin qui detto. Riferiremo, dunque, soltanto le parole di due medici mandati in Abomé per coadiuvare il medico francese. Queste parole rispecchiano la prima impressione da essi avuta nel campo e sono un'accusa terribile. Il colonnello medico di Stato Maggiore, professor dottor Zupitza, giunto in Abomé alla metà di marzo 1915, si esprime come segue.
"Il tutto faceva un'impressione paurosa. Si aveva l'impressione di essere tagliati per sempre dal mondo. Quale spettacolo atroce, poi, l'aspetto doloroso e le facce scarne dai patimenti dei nostri compatriotti! Stanchi dalle continue torture, scarni, consunti, i visi terrei e d'un pallore mortale, gli occhi profondamente incavati e velati di morte; muti, curvi, vacillanti passavano timorosi nel cortile come scheletri viventi. Altri stavano in piedi sull'ingresso delle loro capanne girando furtivi gli sguardi verso i nuovi arrivati, pronti a ritirarsi nel fondo della capanna appena un francese si avvicinava. E questi erano i cosiddetti sani, in istato ancora di lavorare.
Ma quale indescrivibile miseria si doveva presentare ai miei occhi il giorno dopo, allorché entrai per la prima volta nel cosiddetto "ospedale" per prestarvi servizio!" (Allegato 7).
Il medico governativo, dottor Simon, che fu mandato, alla fine del maggio 1915, da Kandi ad Abomé, per sostituire il
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professor Zupitza, descrive le condizioni di Abomé così:
"Lo stato sanitario dei prigionieri era, ad Abomé, pietosissimo. Per quanto abituato, qual medico nei tropici, a gravi casi di malattia, inorridii a vedere i corpi miserevoli e disfatti che mi si presentarono per la prima volta dinanzi nel campo di Abomé. Malamente nutriti, la faccia pallida ed incavata, oppressi e timorosi come cani bastonati, quelli scheletri ambulanti si recavano al lavoro… Il cosiddetto nouveau camp, un campo di concentrazione nel quale trovavansi circa 40 prigionieri tutti affetti da malattie croniche e quindi non più in grado di lavorare, presentava uno spettacolo da far rabbrividire. I prigionieri non erano più uomini, ma scheletri. Non ho mai veduto in vita mia, pur essendo medico, cose così atrocemente orribili… In 42 giorni, dalla fine di maggio al principio di luglio del 1915, io curai:
4912 casi, ossia 117 al giorno.
Circa 25-30 prigionieri erano, ogni giorno, all'ospedale gravemente ammalati;
altri 20-30 "en repos" nelle loro capanne,
e circa 40 malati cronici e inabili al lavoro in quel tal campo orribile, vera stanza mortuaria, di cui ho parlato sopra. In tutto, quindi
dai 90 ai 100 prigionieri completamente inabili e degenti.
In quelle 6 settimane ebbi anche 20 casi di gravissime complicazioni dovute alle febbri ittero-ematuriche. Di questi casi due condussero alla morte; altri sette erano deceduti
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prima che venissi io… Nel Togo, ove domina l'identico clima del Dahomé, nei 6 anni che vi sono rimasto non mi sono ritrovato che a 7 od 8 casi, mentre al Dahomé si ebbero in meno di un anno più di 100 casi!" (Allegato 4).
Rovinati affatto nella salute dai sistematici maltrattamenti loro inflitti in Abomé, poco o nulla poterono giovare ai prigionieri le cure intelligenti dei medici tedeschi.
Allorché, in conseguenza delle rappresaglie del Governo germanico, il campo di Abomé al principio di giugno 1915, venne soppresso, lo stato dei prigionieri era addirittura miserando. Tutti soffrivano di generale debolezza fisica, di anemia gravissima e di forti disturbi nervosi.
70 fra essi erano così ammalati e stremati di forze che non poterono fare a piedi i 9 chilometri di cammino da Abomé alla stazione di Bohikou. Da Bohikou essi vennero trasportati in ferrovia a Cotonou, dove gli ammalati gravi furono ricoverati nell'ospedale e gli altri nelle rimesse della dogana.
Con ciò ha termine il raccapricciante capitolo del campo di Abomé. (Allegati 2, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 17, 19, 20, 21, 22).
Ma in Cotonou attendevano i prigionieri, che il selvaggio odio francese aveva ridotto a rovine umane, sia nel riguardo fisico che nel morale, nuovi tormenti, nuove sofferenze.
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III. In viaggio verso l'America settentrionale.

1. A bordo dell'"Asie".

Come tutti i tedeschi internati nel Dahomé furono concentrati in Cotonou, dove vennero trattati nella stessa maniera umiliante che al loro primo metter piede nel Dahomé, la maggior parte di essi, comprese le donne, vennero imbarcati, il 5 di luglio 1915, sul vapore da carico "Asie". Durante i 15 giorni di viaggio non si ebbe alcun riguardo al cattivo stato di salute dei prigionieri. I quali vennero ammassati nella stiva non ventilata della nave e costretti in parte di giacere sul nudo assito. Salire sopra coperta fu loro vietato. Per gli ammalati non fu provveduto nulla. Di medicine non si ebbe nemmen l'ombra. Il vitto fu preparato e distribuito in secchie così sudicie, da eccitare il vomito. (Allegati 4, 10, 12, 153 16, 25).

2. A bordo del "Tibet".

Il rimanente dei Tedeschi internati nel Dahomé, circa 100, fu fatto partire, l'8 agosto 1915, ossia dunque un mese più tardi, a bordo del vecchio e guasto vapore da carico "Tibet". Dei 100 prigionieri in parola 70 o 75 erano malati gravemente di malaria, la qual cosa non impedì punto al medico primario dell'ospedale di Cotonou, dottor Waggon, di negare a suoi colleghi tedeschi la quantità di chinino assolutamente necessario
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per il viaggio. Questa perla di medico, con cinismo incredibile, dichiarò anzi, contro la sua coscienza di medico e di uomo, al capo del trasporto, capitano Bonnet, che tra i prigionieri non vi erano ammalati. Pure sul "Tibet" i prigionieri furono ammassati nella stiva che non avrebbe potuto contenere più di 60 persone. Pareti e pavimento della stiva erano continuamente umidi, aria fresca non vi giungeva mai, sicché non serve dire che un simile alloggio fu indegno di creature umane e oltremodo nocivo per la salute dei prigionieri convalescenti da gravi malattie. Gli ammalati di malaria dovettero languire senza soccorso stesi sul nudo tavolato. Solo i nuovi ammalati gravi vennero trasportati in un compartimento speciale della nave e ciò solo dopo aver sormontata la viva resistenza del capitano Bonnet. Agli ammalati non venne somministrato un vitto speciale, ma quello comune che fu anche insufficiente. Il trattamento generale fu, come sempre, spietato e umiliante. (Allegati 3, 8, 26).

IV. Nel Marocco e in Algeria.

Come a bordo dell'"Asie" e del "Tibet" nella sorte dei prigionieri non si avverò alcun miglioramento, così nei due campi dell'Africa settentrionale, Mediouna e Medea, dove i prigionieri vennero trasportati, la loro sorte rimase inalterata, giacché le condizioni nei nuovi campi non corrisposero nient'affatto né alle loro speranze né alle esigenze della loro guasta salute.
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2. Nel campo di Mediouna (Marocco).

In Mediouna vennero trasportati tutti i Tedeschi del Togo, comprese la maggior parte delle donne ed eccettuati gli ufficiali. L'alloggio, l'alimentazione e l'assistenza sanitaria lasciarono per ogni verso a desiderare. Perfino le donne vennero qualificate "prisonnières de guerre" e trattate come tali. Pagliericci per dormire furono distribuiti ai prigionieri solo lungo tempo dopo il loro arrivo in Mediouna. Vestiti di panni leggeri come ne' tropici i disgraziati dovettero soffrire assai per il freddo. Il Governo germanico mandò loro panni d'inverno, che sebbene giunti nel decembre 1915 non vennero però distribuiti che nell'aprile 1916. Le medicine per combattere la malaria e la dissenteria croniche mancarono. Pure se arsi dalla febbre i prigionieri dovettero fornire duri lavori e vennero puniti col massimo rigore. In conseguenza di ciò la malaria in molti casi si trasformò in febbre ittero-ematurica. Per effetto di questo morbo terribile 14 Tedeschi erano periti nel Dahomé: altri 7 ne morirono in Mediouna. Riguardo al trattamento generale esso fu, tutto compreso, il medesimo che in Abomé. Come là, tanto i prigionieri di guerra che i civili dovettero eseguire faticosissimi lavori nelle cave di pietre e simili per una mercede di 10 centesimi. Il votamento delle latrine fu pure un'occupazione dei prigionieri. Di punizioni non si fece risparmio. Come nella zona di guerra in Francia, una pena consistette nel costringere un prigioniero a rannicchiarsi sotto una tenda tesa a soli 60 centimetri dal suolo e a rimanervi anche sino a trenta giorni di seguito esposto a tutte le intemperie. L'infelice non poteva né levarsi in piedi né met-
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tersi a sedere sicché doveva giacere per tutto il tempo. I prigionieri definirono questa tenda di punizione il "canile". Una punizione anche più grave significò l'invio al campo di El Borudj, situato molto più distante dalla costa. In questo campo i prigionieri, precisamente come nel Dahomé, vennero tormentati dallo stesso comandante. Allorché giunse la commissione svizzera d'ispezione la si fece contenta e gabbata. Ai commissari vennero mostrate le tende migliori ricoveranti soli pochi prigionieri, e nella cucina si fecero ammirar loro due maiali macellati di fresco, dei quali i prigionieri naturalmente non ricevettero neppure un assaggio. (Allegati 8, 10, 12, 15, 18, 23, 24).

2. In Medea (Algeria).

In Medea vennero trasportati il vicegovernatore del Togo, gli ufficiali con le loro mogli e i medici. E se già durante il trasporto nulla si era trascurato per far sentire ai prigionieri la loro condizione (in Oran le donne erano state trattate perfino da delinquenti e non da prigioniere), in Medea le condizioni non migliorarono. Dapprincipio gli ufficiali furono alloggiati in un magazzino di foraggi, ma poiché la pioggia, che penetrava dal tetto, lo rese inabitabile, li si rinchiuse in una stalla, insieme con i cavalli del comandante del campo e della scorta di arabi. Intirizziti dal freddo, nonostante le ripetute preghiere, non si concesse loro, per lungo tempo, né una stufa, né un po' di combustibile. Di sedie, armadi e comodi per lavarsi nessuna traccia. I prigionieri, con
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qualunque tempo, anche se nevicasse, si dovettero lavare nel cortile. I panni d'inverno loro inviati non li ricevettero mai. Il vitto fu cattivo ed insufficiente, né, data l'insensibilità di cuore del comandante del campo e l'arbitrio dei suoi dipendenti fu possibile ottenere un miglioramento. Gli ammalati vennero abbandonati a se stessi. Le medicine, soprattutto il chinino, vennero loro negate. I medici francesi non si presero alcuna premura dei prigionieri ammalati, uomini o donne. Di solido gli ammalati non vennero trasportati nell'infermeria. Anche ammalati gravi dovettero attendere giorni e giorni per esservi accolti. Un prigioniero morì pure in Medea per effetto di febbre ittero-ematurica. La soppressione d'ogni corrispondenza epistolare, che durò dal giugno 1925 sino alla fine del marzo 1916, colpì assai duramente tanto i prigionieri di Medea che quelli di Mediouna. Ai prigionieri non vennero consegnate né lettere, né danaro, né pacchi; le loro missive furono trattenute. (Allegati 4, 25). Verso la metà del°1916 i ripetuti sforzi del Governo germanico ottennero che la Francia sgombrasse i campi dell'Africa settentrionale e trasportasse i prigionieri tedeschi in Francia. Ma pure l'attuazione di questo accordo non arrecò ai prigionieri tutto il bene desiderato.

V. In Francia.

Il trasporto dei prigionieri in Francia avvenne pure senza il minimo riguardo verso di essi. Della guasta salute dei Tedeschi del Dahomé non si tenne alcun conto nelle disposizioni prese per il viaggio. Gl'infelici dovettero ancor una
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volta giacere sui nudo e sporco tavolato della stiva della nave dove, ammassati in uno spazio troppo angusto, non poterono nemmeno allungare interamente le gambe. Fu loro concesso, sì, di salire, durante il giorno, sopra coperta, ma senza nulla che li riparasse dalla vampa del sole. Anche i prigionieri scelti per essere spedalizzati nella Svizzera, e che partirono, nel maggio del 1916, a bordo della "Chaujia" non vennero né alloggiati né alimentati debitamente. Toccò pure ad essi di compiere la traversata stretti pigiati nella stiva della nave nera di polvere di carbone e appestata dalle bigonce aperte messe a disposizione dei prigionieri per i loro bisogni corporali. Il vitto fu insufficiente; le maniere dell'equipaggio nero volgarissime. Anche le donne tedesche menate via dal Togo si ebbero i medesimi maltrattamenti. Né la condizione odierna dei Tedeschi del Dahomé in Francia è tale che essi possano rimettersi alquanto dai tanti strapazzi e dalle tante sofferenze. Non un alloggio appena discreto nel riguardo igienico; non un'alimentazione passabile e sufficiente; non un'assistenza sanitaria corrispondente al bisogno. E che dire poi del fatto che la Francia si ostina a costringere questi uomini, cui ella ha tolto la salute, a compiere duri lavori? (Allegati 6, 8, 11, 15, 16, 23, 24.)
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Conclusione.

Con il trasferimento dei prigionieri del Dahomé in Francia il Governo germanico ha ottenuto l'appagamento della sua principale richiesta. Ma il modo in cui i prigionieri – circa 380 – vengono trattati nei campi di concentrazione francesi è tale da giustificare i più gravi timori per la vita e la salute di questi disgraziati, che hanno già vissuto uno spaventoso martirio. Solo la loro spedalizzazione nella Svizzera potrebbe dare sufficiente affidamento che nulla si lascerebbe intentato per salvare il briciolo di salute che ancora rimane agli sventurati.
Il Governo francese si è opposto però al desiderio del Governo germanico, cosa che, considerate le sue intenzioni, doveva, in fondo, attendersi. Infatti la spedalizzazione dei Tedeschi del Togo e del Camerun nella Svizzera attraverserebbe il piano francese di distruzione dei Tedeschi dell'Africa occidentale. Ognuno tuttavia dovrebbe esser convinto che i Tedeschi del Camerun e del Togo, dopo la via crucis fatta nel Dahomé, non son più uomini capaci di tornare dopo la guerra a spiegar nelle colonie la loro attività. Sia nel riguardo fisico che nel morale essi hanno sofferto in tal misura (l'attestato dei medici parla d'infermità cronica e di completa rovina fisica) che l'unico loro desiderio sarà di vivere in un clima benigno e in patria.

La Francia potrebbe, dunque, considerare raggiunto lo scopo del martirio loro inflitto, almeno per ciò che si
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riferisce alle sue criminose intenzioni verso le persone.
Sennonché anche qui l'odio trionfa sulla fredda riflessione. La Francia ci tiene a non condonare ai prigionieri delle colonie un solo giorno della prigionia. Essi devono continuare a soffrire sino a tanto che il Governo francese è in grado d'imporre la sua volontà. La crudeltà, insomma, vien praticata per la crudeltà.
Orbene: la nazione francese non potrà mai cancellare questa colpa dalla sua storia. Attenuanti per i fatti del Dahomé non ne esistono. Né ragioni militari, né politiche resero necessaria la sistematica tortura di centinaia di innocenti. Anche il semplice internamento, attuato a condizioni d'esistenza discrete, sarebbe stato contrario al diritto delle genti. Occupato il Togo e il Camerun dalle truppe anglo-francesi, i Tedeschi residenti in questi paesi, mancando d'ogni forza armata, non furono per nulla in grado di influire sugli avvenimenti in modo sfavorevole agli Stati occupanti. La maggioranza dei prigionieri non aveva partecipato né direttamente, né indirettamente alle operazioni di guerra. Pacifici borghesi, essi avrebbero continuato volentieri ad attendere ai loro affari, o qualora si fosse proprio creduto di doverli internare, avrebbero, tranquilli e rassegnati, attesa la fine della guerra e la liberazione. Invece essi vennero cacciati in una bolgia infernale, maltrattati come bestiame da macello, umiliati in ogni guisa nella loro dignità di uomini. I più avrebbero certamente preferito la morte agli strazi della prigionia. E non è da escludersi che la Francia avrebbe assassinato i prigionieri tedeschi delle colonie se non avesse temuto di non poter giusti-
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ficare un tale obbrobrioso misfatto dinanzi al mondo indignato. I Francesi lasciarono quindi ai prigionieri la vita e di ciò si giovarono per rintuzzare ogni protesta. Del resto, così operando, essi ebbero modo di sfogare maggior ferocia e di far soffrire di più che non uccidendo senz'altro le loro vittime. Le autorità francesi si arrogarono il diritto di decidere della vita e della morte dei prigionieri. Tipico, in questo riguardo, è un discorso dell'amministratore di Abomé, nel quale egli disse che dipendeva unicamente dalla sua volontà se questo o quel prigioniero l'avrebbe scampata. Queste parole non sono di un irresponsabile: esse coincidono esattamente con l'accaduto e con il modo di vedere delle autorità centrali francesi. Le quali non solo tollerarono le inaudite crudeltà descritte ma le provocarono ed appoggiarono. Il Governatore generale di Dakar, reso avvertito dagli stessi comandanti francesi dei convogli della impossibilità della marcia forzata nell'interno del Dahomé rispose, come abbiam visto, ordinando che la marcia si compiesse ad ogni costo. Il vicegovernatore del Dahomé, dopo aver ispezionato il campo di Abomé lo dichiarò per ogni verso soddisfacente! Ufficiali ispettori, anche quando si degnarono di ascoltare le lagnanze dei prigionieri, non fecero nulla per migliorarne la sorte. Il comandante del campo di Abomé e il medico furono testimoni oculari delle torture cui il Venère e i suoi complici sottoposero i prigionieri, ma come l'amministratore le tollerarono, anzi le promossero. Il Governo francese ebbe perfino il cinismo di sostenere, nel marzo 1915, contro le vive rimostranze del Governo germanico che il trattamento dei prigionieri tedeschi nelle colonie francesi corrispondeva pienamente ai principi d'umanità, principi che il Governo della Repub-
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blica si faceva obbligo d'onore di osservare a qualunque costo.(2)
Poiché il Governo francese dichiarò lo stato delle cose in Dahomé conforme alle esigenze dell'umanità non ci si può davvero meravigliare che i carnefici di Gaya e di Kandi, ma specialmente di Abomé, si sentissero con le spalle al sicuro e che soprattutto l'aiutante Venère ritenesse di non aver motivo alcuno di moderarsi nello sfogo dei suoi istinti brutali. L'allegato 21 dimostra sino a quali forme patologiche della ferocia potesse manifestarsi la bestialità di questo mostro in sembianza umana; l'allegato 22 dà una piccola sintesi dei maltrattamenti quotidiani. Alla condizione delle cose in Abomé si accorda poi a capello il fatto che ogni servizio divino, perfino quello di Natale fu severamente proibito (allegato 13), e l'altro che un sergente lacerò in minutissimi pezzi e sparpagliò il breviario del missionario cattolico Alfons, del Camerun, gettato in prigione perché il motore della motocicletta del medico era esploso! Del cinismo inaudito del Venère testimonia ancora la sua dichiarazione ai prigionieri di non temer nulla per sé né per i suoi satelliti, una volta finita la guerra. Egli ingiunse ai prigionieri di mandare a casa "buone notizie", ossia lettere nelle quali si doveva affermare che i prigionieri stavano benissimo e che il loro lavoro era un divertimento. E anziché punito il Venère, per le sue infami
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azioni venne promosso di grado. Almeno i prigionieri, alla partenza dal Dahomé, lo videro portare i galloni di ufficiale. Se il Governo francese avesse voluto procedere contro di lui e gli scherani suoi complici, materiale di prova ne avrebbe avuto in sovrabbondanza.
Un rapporto più stretto tra i fatti accaduti nel Dahomé e la volontà e l'intenzione del Governo francese è difficile pensarlo.
Questo rapporto accresce la gravità obiettiva della colpa. Mai la Francia potrà cancellarla dal suo scudo, si adoperi ancora quanto voglia a rintronar l'Europa con le frasi della sua missione incivilitrice. Tali frasi non riusciranno mai a turbare il giudizio d'ogni persona onesta sull'abisso del suo odio e della sua ingenita ferocia. Dal capitolo del Dahomé non si potrà mai prescindere nel giudicare la Francia.
Eppure la Francia è la nazione che secondo il bisogno politico ha l'ardire, di tanto in tanto, di fare il viso arcigno e di organare, nell'estero neutrale, gazzarre di stampa contro i suoi nemici per pretese crudeltà. La Francia rea degli orrori del Dahomé!

Seguono i documenti allegati.
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Deposizioni di testimoni oculari.
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Allegato No. 1.

Dal protocollo contenente la deposizione giurata del signor Franz Gippert, prete missionario della congregazione dei Pallottini, fatta davanti alla R a Pretura di Ehrenbreitstein il 27 maggio 1916.
Mi trovavo nella colonia tedesca del Camerun in qualità dì direttore della Missione cattolica di Edea sul Sanaga.
Quando i soldati francesi neri (Senegalesi), accompagnati da facchini e capitanati da un soldato bianco, – credo un furier maggiore – penetrarono nella sede delle Suore, e, sotto gli occhi delle medesime, predarono e saccheggiarono; una suora di carità, e più precisamente la madre superiora, fu assalita da un soldato nero che le strappò il velo e la minacciò col coltello. Quando i Francesi entrarono a Edea, il 26 ottobre 1915 la mattina alle 9, le truppe tedesche avevano già abbandonato le località. Soltanto nella Missione cattolica eravamo rimasti io, un frate e 3 suore. Durante la mattina vennero alquanti soldati bianchi e neri, armati di grandi coltellacci chiamati cuttlas, e, con essi, si precipitarono prima nell'ovile dove erano rinchiuse circa 90°pecore, poi nelle altre stalle e nei pollai, dove fecero strage di tutti gli animali. In pochi minuti pecore, capre, maiali, tacchini, oche, anitre e polli, erano tutti uccisi. A mezzogiorno venne un furiere con 20 Senegalesi colla baionetta inastata e mi impose, con gesto e con voce sconvenienti, di andare seco lui dal colonnello francese
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insieme al frate che trovavasi alla Missione. Accortomi che altri soldati, frattanto, saccheggiavano la chiesa, facendo man bassa dei più pregevoli arredi sacri, pregai il furiere di mettere un piantone alla Missione per impedire un tal ladrocinio; ma quello si ricusò. Arrivati dal colonnello, dovemmo dare le nostre generalità e sottoscrivere una dichiarazione secondo la quale ci impegnavamo di non compiere ostilità alcuna contro le truppe alleate e di non tenerci in relazione colle truppe tedesche. La sera alle 6, dopo avere dato la nostra parola d'onore che non saremmo fuggiti, potemmo ritornarcene alla Missione in qualità di prigionieri. Già durante il ritorno fummo testimoni di un atroce spettacolo. All'ambulanza francese trovammo grandi fardelli di roba, tutta rubata alla Missione. I saccheggiatori avevano preso coperte, tende, lenzuoli ecc.; li avevano riempiti di arredi; legati quindi per le cocche e portati via. Eran pieni di tutto: di calici, pianete, piviali, biancheria di chiesa, lampade d'argento, ecc., ecc.; e, fra essi, alla rinfusa, pezzi di carne sanguinolente delle pecore e dei maiali uccisi e trafugati. Oppressi dal dolore e dall'ambascia continuammo la strada verso la Missione. Altri arredi di chiesa, non rappresentanti valore per i saccheggiatori erano sparsi qua e là fra l'erba. Giunti alfine, un orribile spettacolo di distruzione e di saccheggio ci strinse il cuore. Tutte le porte erano scassinate; armadi e casse forzati; i letti spampanati per le stanze; le reti contro le zanzare stracciate; talari abiti scarpe biancheria, tutto rubato o distrutto. Libri sfogliati e carte strappate ingombravano i pavimenti; i calamai erano rovesciati, le sostanze chimiche, – sviluppi ed acidi fotografici – versati sull'impiantito, sulle carte e sugli oggetti. Nella chiesa
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tutti i tabernacoli erano spaccati, le tende di seta lacerate, le statue fatte in bricioli, ed un ammonium novissimo ridotto in ischegge. Nella casa delle suore avevano proceduto nello stesso modo brutale. Le suore si erano ritirate nelle loro stanze per prendere in fretta e furia lo stretto necessario in caso di fuga. I soldati neri irruppero nel dormitorio e cominciarono a menar man bassa, sotto gli occhi delle monache atterrite. La madre superiora pregò un soldato bianco di proteggere le suore dalla furia dei soldati neri, ma questi rispose sogghignando: "La Germania è bell'e finita, e qui oggi non c'è che la Francia e l'Inghilterra." La sera, accompagnato da una sentinella francese, andai a ricercare nelle adiacenze della Missione gli oggetti buttati qua e là per pura mania di spregio e di distruzione. Nell'erba trovai molti arredi fra cui un gonfalone pregevolissimo, in mezzo al quale più soldati avevano sfogato i loro bisogni corporali. Il personale di servizio – tutti neri – cuoco e servitori se l'erano battuta quando il saccheggio cominciò e ritornarono soltanto il giorno dopo. Unanimemente raccontarono che, nel medesimo istante in cui io col frate venivamo condotti dal colonnello, soldati bianchi francesi, armati di coltellacci, irruppero nella chiesa e nelle nostre stanze. Tutti gli oggetti preziosi, la biancheria, macchine fotografiche, orologi, argenteria ed altro, furono rubati. Il frate ed io non avevamo altri capi d'abito e di biancheria all'infuori di quelli che indossavamo. Per la vigilanza delle nostre persone 10 soldati bianchi stazionavano nella Missione. Nei 15 giorni che ancora vi rimanemmo non potevamo muover un passo senza avere alle calcagna soldati colla baionetta inastastata [sic]. Infine fummo trasportati a Duala e rinchiusi in quel campo di concentrazione inglese, nel quale trovammo circa 40 te-
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deschi, per la maggior parte impiegati, commercianti e missionari. Passando al campo di concentrazione non ci fu permesso di portar con noi altro che lo strettissimo necessario.
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Allegato No. 2.

Dal protocollo contenente la deposizione giurata del padre Gustav Schwab dell'Ordine dei Pallottini; tenuta d'avanti alla R a Pretura di Olpe il 7 aprile 1916.
Al momento della dichiarazione di guerra mi trovavo a Grossbatanga, ufficio distrettuale di Kribi. Da 5 anni stazionavo in quel luogo in qualità di missionario.
…Nel paese limitrofo di Kribi – così mi raccontarono alcuni dei miei sottoposti degni della più ampia fiducia – soldati francesi distrussero gran parte della chiesa e ne saccheggiarono il contenuto. Sfondata la porta del tempio salirono sull'altare e buttarono giù candele e candelieri; scassinati poi gli armadi ne rubarono i paramenti e gli arredi sacri che distribuirono fra i soldati neri. Il maestro Ephede affrontò quei malnati chiedendo loro conto della distruzione sacrilega; ma male gliene incolse, ché, percosso e minacciato di peggiori guai, ritornò da noi e non ci abbandonò, finché più tardi non ci recammo tutti a Fernando Po dove potè trovare un'occupazione…

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Allegato No. 3.
Dal protocollo contenente le deposizioni giurate del medico governativo a Togo, Dr. phil. et med. O. Saame, fatte davanti al Tribunale militare di Giessen il 2 novembre 1915.

Giessen, 2 novembre 1915.

Dinanzi a noi:
1. Tenente Bartmann
facente funzioni di ufficiale giudice istruttore,
2. Sottufficiale delle milizia mobile Köhler facente funzioni di cancelliere,

È apparso il testimonio Dr. Saame. Notificatogli il motivo della citazione e fatto avvertito dell'importanza e della santità del giuramento da prestarsi dopo avvenuto deposizione, ha deposto quanto appresso:
Mi chiamo O. Saame, sono dottore di filosofia e medico; ho 39 anni, evangelico di religione, rivesto la carica di medico governativo, esercitavo prima la mia professione al Togo, risiedo attualmente a Giessen.
Interrogato sull'oggetto della sua deposizione ha narrato i seguenti fatti:

Quando Togo si fu arreso alle truppe coloniali inglesi mediante la capitolazione di Kamina presso Atakpame, il
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26 agosto 1914, fui fatto prigioniero di guerra dagli Inglesi insieme alla maggior parte dei miei compatriotti. Dapprima fummo ricoverati nel vapore britannico "Obuasi" ancorato nella rada di Lome, il quale ci avrebbe dovuto trasportare sotto un clima migliore. Dopo un soggiorno di 3 settimane in quel vapore sempre ancorato a Lome, ci fu comunicato che, finalmente, saremmo stati consegnati alle autorità militari francesi di Dahomé. Le donne si ebbero libera scelta o di andare in Inghilterra e in Olanda scortate da soldati inglesi, oppure, in virtù delle disposizioni della capitolazione, di rimanersene a Kamina presso i loro mariti. Non fu però data garanzia alcuna che le donne decise a partire avrebbero toccato l'Olanda. Allora tutte quante le donne maritate dichiararono unanimemente di volere dividere in prigionia la sorte dei loro mariti.

1. A Cotonou.

Il 19 settembre 1914 giungemmo nella rada di Cotonou. La mattina del 20 settembre furono scaricati prima i bagagli e poi fatti sbarcare i prigionieri. Le donne vennero condotte all'ospedale e riunite tutte insieme in un camerone. Per lavarsi ogni 16 donne dovevano fare uso di una sola catinella. Il camerone era vigilato da truppe di colore. Gli ufficiali e i soldati prigionieri furono allogati in due rimesse, in una gli ufficiali, nell'altra gli uomini di truppa. Per giaciglio non v'erano che stoie, una ogni due persone. Malgrado la gran piaga delle zanzare che divoravano gli uomini, non furono dati zanzarieri. Il vitto distribuito due volte al giorno, alle 12 e la sera, consisteva in fagioli paesani con carne, – il tutto cotto nell'acqua senza sale né qualsiasi altro condimento o droga, –
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e in un pezzo di pane di granturco. Per bere veniva distribuita dell'acqua che avrebbe dovuto esser filtrata – come dicevano – ma che conteneva, invece, ogni sorta di lordure. Per soddisfare i bisogni corporali v'era nella rimessa degli ufficiali un barilozzo di zinco, in quella degli uomini di truppa alcune stagne di petrolio. Siccome queste stagne erano troppo poche e troppo piccole, e non venivano vuotate quando erano piene nemmeno dietro reiterate e calde insistenze dei soldati prigionieri, accadeva che le urine e gli escrementi traboccassero dalle stagne nel pavimento, inzuppassero le stoie e tutto lordassero, sollevando un fetore insopportabile. Le valigie e i fagotti, misero bagaglio dei prigionieri, giacendo in vere pozze, assorbivano urine ed escrementi. La temperatura tropicale, l'affrettato processo di decomposizione, la porta costantemente chiusa durante la notte, facevano della rimessa una bolgia infernale. Alla nostra gente era proibito di usare i cessi che si trovavano, di là, vicinissimi. Durante il giorno la porta della rimessa stava aperta, ma anche ciò molestava i prigionieri, perché un numeroso pubblico, di sfaccendati e di curiosi bianchi e neri, andava passeggiando in su e in giù; e non mancavano nemmeno le donne, fra cui alcune signore ben vestite, che ci schernivano e ridevano alle nostre spalle accompagnando le sghignazzate con atti sconci e villani.

2. Trasporto.

Dopo 3 giorni di permanenza a Cotonou cominciò il trasporto verso i vari campi di concentrazione. Questi campi erano a Porto Novo europeo e Porto Novo indigeno a Beconville, Savé, Parakou, Kandi e Gaya sul Niger, nel Senegal. Prima del trasporto i prigionieri furono esaminati dal medico militare fran-
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cese, Dr. Mazet, per vedere se erano in grado di compiere le lunghe marce; ma, nell'esame, si procedette con grande arbitrio e ingiustizia, poiché furono dichiarate idonee persone che, evidentemente, erano deboli e malate, e quindi incapaci a compiere qualsiasi marcia. Basterà citare due nomi: il tenente Mans, il quale, – come ebbi a persuadermi io stesso, – soffriva di tendosinovite nel muscolo peroniero, e il capitano di cavalleria von Roebern affetto da dissenteria amebica. Da principio il vice-Governatore e gli ufficiali ammogliati furono accantonati a Porto Novo e a Beconville, insieme ad altri 12 incapaci a marciare. Dopo 4 settimane 7 famiglie furono mandate via da Porto Novo e dirette 3 a Savé, le altre 4 a Parakou. Il grosso dei prigionieri di guerra fu suddiviso così: metà a Kandi, l'altra metà a Gaya sul Niger (alto Dahomé). Fino a Savé furono trasportati colla ferrovia, e da Savé dovettero recarsi a destinazione a marce forzate.
Gli apparecchi che dovevano servire a preparare l'acqua filtrata furono tolti ai prigionieri prima che si mettessero in marcia. Mancavano ad essi indumenti, biancheria e scarpe, perché la maggior parte dei bauli erano stati scassinati e quasi vuotati del contenuto. Le sottili suole delle scarpe da passeggio, che molti prigionieri indossavano al momento dell'arresto, si consumarono ben presto sul terreno roccioso e quarzoso di Dahomé. I prigionieri allora dovettero ricorrere a certi sandali di forma oltremodo primitiva, consistenti esclusivamente di un sottile strato di pelle e di due anelli: uno piccolo, nel quale entrava il pollice, ed uno più grande che abbracciava il dosso del piede. Questi anelli o fermagli scavavano a poco a poco un solco profondo nella carne e causavan ben presto
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ferite sanguinanti dapprima, purulenti più tardi. Il dottore Mazet, il quale aveva modo di potersi adagiare comodamente nella sua amaca trasportata da negri, rispondeva col solito ritornello ai lamenti dei disgraziati: "Marciate che vi farà bene!" E si marciava. La sera, alla fine della marcia, veniva macellata una bestia vaccina; e la carne, ancor calda, cotta malamente in una caldaia con acqua e con jams veniva data in pasto ai prigionieri. Gli strapazzi e il nutrimento insufficiente buttarono talmente giù i prigionieri che alcuni, dimagriti in modo pauroso, erano ridotti pelle e ossa. Il medico governativo dottor Ulrich diminuì di oltre 90 libbre ed era ridotto come l'ombra di se stesso.

3. A Porto Novo.

A Porto Novo abitavo insieme al vice-Governatore, a due impiegati celibi, mia moglie ed altri 3 signori colle rispettive consorti nella casa dell'ex-capo negro Tofa, nella città indigena Becon. Soldati di colore ci invigilavano. Quando arrivò il nostro bagaglio facemmo la spiacevole costatazione che due bauli erano stati sconficcati; che l'uno era completamente vuoto e l'altro conteneva solo pochi indumenti. In un baule i ladri avevano lasciato soltanto un paio di guanti, nei quali si scorgevano ancor le impronte delle mani negre; impronte provenienti dalle manacce fuligginose dei macchinisti e fuochisti del vapore a pale che da Cotonou ci aveva trasportato a Porto Novo. I bauli erano stati forzati durante il viaggio nel bagagliaio della nave. Alla nostra denuncia diretta al Governatore militare a Maroix, nessuno reagì, nessuno si prese la pena di
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disturbare i signori ladri per quanto fosse stato oltremodo facile scoprirli. A Becon le autorità militari ci tolsero tutto il denaro e ce lo restituirono in moneta francese cambiato ad un corso forzoso e colla perdita del 25 %.
Dopo avere rilasciato per iscritto la nostra parola d'onore alle autorità francesi che non saremmo fuggiti, ci fu concesso, per breve tempo, di uscire in certe ore stabilite. Dopo qualche giorno l'uscita ci fu negata; rivenne poi il permesso mantenuto per qualche giorno finché non fu nuovamente e definitivamente ritolto. Il vitto, che ci veniva fornito da un albergo, era, dapprima, abbastanza buono e sufficiente. Fu persino accordato che ogni prigioniero potesse beversi un quartuccio di vino al giorno. Chi aveva denaro poteva comprarsi tutto quel che voleva: roba da mangiare, da bere ed anche articoli di toeletta. Alla cuccagna – come la chiamammo noi più tardi – successe ben presto la carestia: il vitto cominciò a peggiorare ed a diminuire a vista d'occhio; il vino non venne più. Contemporaneamente una disposizione vietava ai prigionieri l'acquisto di articoli specialmente in uso tra gli Europei: caffè, tè, zucchero, tabacco, ecc. Una seconda disposizione ci vietava l'acquisto di uova, pomodori, e frutta di ogni genere: banane, ananassi, aranci, ecc.; per quanto, tali frutta, vi fossero stati in grande abbondanza. Quest'ultima restrizione fu oltremodo dura per noi, molto più che il vitto era peggiorato talmente da non esser più sufficiente alla nutrizione, dato che il corpo dovesse rimanere nel pieno possesso delle forze, per superare i pericoli che il soggiorno nei tropici presenta. Da ultimo, la somma che le autorità militari avevano destinato per il nostro vitto subì una nuova falcidia, dimodoché non si potevano avere che due polli striminziti per un
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intiero pasto in 10 persone. Ora, avveniva che questi benedetti polli, quattro volte su cinque, giungevano nella nostra mensa quasi completamente spolpati. I portatori negri, che per venire dall'albergo a Becon dovevano camminare tre buoni quarti d'ora, procedevano, per via, all'assaggio e spilluzzicavano diligentemente finché si accorgevano che rimanevano soltanto gli ossi e la pelle. Dopo due settimane di soggiorno a Porto Novo ci fu comunicato che due settimane più tardi, 7 famiglie sarebbero state trasportate nel cuore di Dahomé, 3 famiglie a Savé, e 4 – fra cui la mia – a Parakou.

4. In viaggio verso Savé e Parakou.

Il 19 ottobre 1914, la mattina presto, mia moglie ed io, insieme al capo di polizia e la sua signora, fummo portati da Becon a Porto Novo, sotto la scorta di 4 soldati francesi colla baionetta inastata, di un francese col fucile carico, di un capo convoglio armato di rivoltella. Proseguimmo poi da Porto Novo fino a Cotonou insieme a due altre famiglie. Nel pomeriggio, alle ore 2, le 4 famiglie, scortate da 16 soldati negri colla baionetta inastata e da due soldati bianchi, vennero condotte alla laguna. Qui fummo imbarcati su due barconi da trasporto, collocati sopra coperta ed imposto agli uomini – non so perché – di sdraiarsi a terra. Quando giungemmo a Cotonou era già notte. Malgrado fossimo carichi di bagagli e di fagotti – che avevamo potuti salvare dal fuggi fuggi – rappresentanti tuttavia men che lo stretto necessario dopo gli svaligiamenti compiuti dai soldati a nostro danno, ci fu imposto dai negri di procedere in trotto. Le donne passarono la notte all'ospe-
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dale, noi uomini, quattro, fummo rinchiusi in una stretta prigione. Quando chiesi di uscirmene per un bisogno corporale, soffrendo io di diarrea, il sergente Olivier mi indicò una stagna di petrolio in un angolo della cella. Accanto alla stagna funzionante da cesso ve n'era una seconda ripiena d'acqua per bere e per lavarsi. Avendo osservato che non corrispondeva né alla dignità umana né all'igiene imporre a prigionieri rinchiusi in un luogo così angusto, sfogare in esso anche i loro bisogni corporali, il sergente, impazientito, mi ricoprì di ingiurie, e per tutta risposta, portò via la candela. – Il giorno seguente partimmo in ferrovia per Savé dove arrivammo la sera alle ore 6. Colà dovemmo trascorrere la notte in capannacce di mota; ogni due famiglie in una capanna. Il giorno seguente, alle ore 6 della mattina, fummo condotti in un garage ed i nostri bagagli caricati in un autocarro. Noi altri uomini dovemmo prendere, quindi, posto sopra ai bagagli; i quali erano talmente accatastati che noi, per non battere la testa contro il soffitto, dovevamo rimanercene accoccolati e a testa bassa. Cominciò subito il viaggio. Aggrappati su quel monte di bauli dovevamo starcene in posizioni così infelici, a ridosso l'uno dell'altro, che le gambe si intormentivano e non potevamo muoverle per non cadere. In queste condizioni, che meglio si possono immaginare che non descrivere, dovemmo trascorrere ben 16 ore, sbalzellati continuamente e colla minaccia di essere balestrati in corsa da una o dall'altra parte della strada. Tre signore poterono trovar posto nel seggiolino accanto allo chauffeur, la quarta dovette arrampicarsi come noi fra le valigie e dividere la nostra sorte. Quando lasciammo Savé i Francesi ci salutarono con risatacce sgangherate e vollero fotografare "quello spettacolo". La sera alle 9½ giungemmo a Parakou. Anche qui ogni due famiglie furono ricoverate in una capanna
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di mota.
Gli arredi della capanna erano questi: una stoia per dormire, una spece di lucernina indigena a burro (un piccolo recipiente di terracotta munito di manico e di piede, con un lucignolo di bambagia e un pezzo di burro africano), ed un pentolo pieno d'acqua. Un indigeno che doveva fare da cuoco per le 4 famiglie, ci diede della carne cotta insieme a del jams in una stagna da petrolio. Il giorno dopo cercammo di procurarci qualche comodità: due ceppi trasportati a braccia dal bosco vicino servirono a me e a mia moglie per sedere, mentre una valigia funzionava da tavolino. Dagli indigeni potemmo comprare una calebassa (zucca prosciugata) piuttosto grande che ci serviva da catinella ed alcuni recipienti, di forme pure indigene caratteristiche per cuocervi i cibi. Il nostro cuoco nero preparava i pasti alla sua usanza e in un modo che, per noi europei erano assolutamente immangiabili. Ci era severamente proibito di far acquisto di generi alimentari; e il cuoco, che lo sapeva, tirava a sfruttarci in modo degno di uno strozzino di professione. Dopo qualche tempo l'amministratore ci fece sapere che, da quel giorno in poi avremmo potuto cucinare da noi, a nostro piacere. Ci furono distribuiti ogni giorno e a testa 40 centesimi di carne e 10 centesimi di jams. Frutta ed altro potevamo provvedercene soltanto di nascosto. Dopo qualche tempo furono distribuiti 4 letti, ossia uno per famiglia; e dopo 6 settimane alcuni arredi di prima necessità e qualche mobile così ripartiti per ogni capanna, ossia per due famiglie: un tavolino, 4 sedie, 4 coltelli, 4 forchette, 1 casserola, 2 bicchieri, 8 piatti, 2 lanterne da stalla ed una pignatta di 4 litri. Quest'ultima in comune per tutte e 4°le famiglie. Nel gennaio 1915 l'amministratore
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fu traslocato e ne venne un altro di nome Antonio Ferluis. Il cambiamento non ci fu favorevole. Il nuovo venuto si divertiva ad angariarci ed a vessarci in ogni modo. Secondo le prescrizioni riguardanti il nutrimento dei prigionieri di guerra a Dahomé, noi altri europei avremmo dovuto ricevere della farina, la quale ci veniva distribuita infatti, ma era muffata, umida e verminosa. La quantità, poi, non corrispondeva affatto alle prescrizioni. In 5 mesi ricevemmo quel tanto che ci sarebbe spettato in sole 9 settimane. Tutti i reclami si spuntavano contro la resistenza passiva dei vari organi francesi. Aggiungasi a questo che dovevamo pagar di tasca le spese del trasporto della farina dalla costa a Parakou. Mentre il primo amministratore ci fece avere, salvo poche eccezioni, quasi sempre della carne mangiabile, il suo successore ci distribuiva, nella maggior parte dei casi, carne puzzolente ed in avanzata putrefazione. Questo figuro non si vergognava di mandarci carne di animali còlti da morbo, macellati pochi minuti prima che morissero da sé. Le quantità prescritte non ci venivano date giorno per giorno, ma per 4 giorni tutte in una volta, e persino in blocco per 8 giorni. Se, ora, si pensa che nei tropici, con 40 fino a 45 gradi di calore all'ombra, il processo di putrefazione è rapidissimo, e che noi non disponevamo né di cantina, né di recipienti, né di ghiaccio per conservare la carne, si comprenderà bene che cosa avvenisse. Io stesso esaminai più volte la carne che doveva servire al nostro nutrimento. Nella maggior parte dei casi costatai che proveniva da animali il cui organismo trovavasi in istato di completo marasmo. In altri casi riscontrai persino la tubercolosi delle ossa. Tutti i reclami non approdarono a nulla per lungo tempo; per quanto le autorità francesi sapessero benissimo che
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la carne fornitaci era immangiabile. Il commerciante svizzero Haag, che aveva a Parakou una piccola fattoria, ci fece sapere per mezzo di un cuoco indigeno che tanto lui quanto i Francesi avevano ricevuto avviso speciale – in quel caso in cui nella carne fornitaci riscontrai tracce di tubercolosi – che la bestia era malata e le sue carni non dovevano essere vendute. Il cuoco aggiunse, però, che il segretario – il sottufficiale Santonis – disse al negro: "Pesate pure 16 kg di quella carne. La daremo ai boches."
Di quando in quando ricevevamo legumi secchi e riso. Tanto gli uni quanto l'altro erano della infima qualità, di solito ricusati persino dalle classi indigene più umili. Spesso spesso accadde che ci mancassero le legna necessarie per cuocere i cibi. I soldati negri invece di consegnarci quel tanto che ci spettava, facevano botteghino vendendole al mercato. Mia moglie che parlava francese andò a reclamare le legna dovuteci. Noi altri uomini, cui era interdetta l'uscita, non potevamo far altro che rassegnarci. Chiamati dall'amministratore e dal suo segretario in presenza di mia moglie, i soldati negri, interrogati dove se ne fossero ite le legna, risposero che le avevano regolarmente consegnate ai prigionieri e che la donna mentiva. Il segretario, allora, come se avesse avuto un responso dai sommi dei, si rivolse pomposamente a mia moglie, e, con gesto di uomo seccato, sentenziò: "Come lei sente, le legna sono state consegnate. I soldati asseriscono che lei mentisce. Se ne vada dunque che ne ho abbastanza di queste continue tiritere."
Il 25 marzo 1915 mia moglie ed io fummo mandati a
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Cotonou perché ammalati. Partimmo da Parakou in autocarro; mia moglie sedeva accanto allo chauffeur ed io, anche questa volta, fra i bauli. La sera alle 6 giungemmo a Savé. Sostammo qui in un cosiddetto ricovero perché il treno per Cotonou transitava una volta ogni 4 giorni. Ma per noi non v'era né un letto né una stoia. Stendemmo in terra una coperta di peli di cammello che fortunatamente possedevamo, e su questa coperta dovevamo dormire ben 4 notti. Il 29 marzo proseguimmo per Cotonou in terza classe, mescolati alla bassa popolazione negra, insieme a molti altri malati, prigionieri di guerra, giunti a Savé durante i 4 giorni. Un inglese che montò in treno nella prima fermata dopo Cotonou rimase sorpreso di vedere una signora nella vettura degli indigeni; e, giunto a Abomé-Cana, presentò le sue rimostranze al capostazione, dicendogli che non era giusto trasportare una signora nella vettura degli indigeni, anche se questa signora era una prigioniera di guerra. Debbo far notare che il riparto era pieno zeppo di passeggeri neri che portavan al mercato pesci secchi (gli stessi africani chiamano tali pesci secchi col nome "pesci puzzolenti"), topi e sorche pure secchi, ed altri simili bocconcini stomachevoli e fetenti, tantoché la permanenza di un europeo nella vettura era addirittura insopportabile. La sera tardi giungemmo a Cotonou, e fummo condotti subito all'ospedale.
Colà appresi che una signora austriaca, la quale condivideva con suo marito la prigionia a Porto Novo, si era sgravata di una bambina. Non permettendole la sua malferma salute di allattare la creatura, il marito cercò di vedere se era possibile comprare presso certi commercianti francesi in Porto Novo, del latte sterilizzato o concentrato. Il nostro uomo non aveva fatto
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i conti con l'odio dei francesi; un odio che non si arresta nemmeno dinanzi ai poppanti. Breve: tutti gli ricusarono con orrore il latte destinato al misero neonato.
Il console tedesco di Libreville, il commerciante Strauch, in avanzata età e assai malato per giunta, fu condotto a Cotonou in qualità di prigioniero civile. Alla partenza dovette trasportare da sé il pesante bagaglio fino al luogo d'imbarco e quindi dentro il vapore. Arrivato a Cotonou dovette egualmente scaricarlo e trasportarlo sulle spalle per oltre 20 minuti di strada fino ad una rimessa destinata quale alloggio per lui e per altri prigionieri. Il povero vecchio, affranto dal male e dall'età, rotto dalle privazioni del viaggio e, più che altro, dalla eccessiva fatica per il carico, lo scarico e il trasporto del pesante fardello stramazzò sulla stoia e in poche ore venne a morte.
Il 17 aprile 1915 fummo imbarcati insieme ad altri ammalati nel vapore onerario "Tibet". Il medico governativo Dr. Ulrich, mia moglie ed io avemmo la fortuna di passare in seconda classe. Gli altri furono stabbionati in un piccolo recinto di terza classe. Mentre stavamo per imbarcarci, il capoconvoglio, un tenente francese di nome Meyer, percosse l'impiegato P… collo scudiscio di ippopotamo e accompagnò il colpo con questa esclamazione: "Bisogna romperli il muso, a tutti questi tedeschi!" Nel vapore potevamo muoverci liberamente in un tratto del ponte. Il 19 aprile il vapore levò l'àncora e partimmo, non senza che il capoconvoglio ci avesse messo prima a cognizione delle prescrizioni regolanti il nostro contegno per la traversata e le punizioni comminate per ogni infrazione. Le
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prescrizioni erano queste:
"I libri che i prigionieri vogliono leggere debbono essere presentati prima al capoconvoglio il quale li munirà di visto. Quando venga ordinato, ognuno deve recarsi immediatamente sotto coperta. È proibito cantare. Punizioni: Sottrazione parziale o anche totale del cibo e pene corporali!"
Il 22 maggio 1915 il vapore entrava nel porto di Marsiglia.
Letto, approvato e sottoscritto:
firmato: Otto Saame.

Il testimonio ha prestato giuramento:
firmato: Bartmann, tenente della riserva, in qualità di giudice istruttore.
firmato: Köhler, sottufficiale della milizia mobile, in qualità di cancelliere.
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Allegato No. 4.

Dal rapporto giurato del medico governativo imperiale presso il Governatore di Togo, Dr.  med. Simon, sulla sua prigionia a Dahomé, in Algeria, e in Francia. Deposizione del 17 ottobre 1916 al Ministero delle Colonie.

1. A Cotonou.

Il 18 settembre gli Inglesi che ci avevano fatti prigionieri a Kamina, ci consegnarono ai francesi i quali ci condussero da Cotonou a Dahomé dove approdammo il 19 settembre. Fummo alloggiati tutti, uomini di truppa e ufficiali, in baracche della dogana oltre ogni dire primitive. Per dormire ognuno ricevette una stoia di paglia e, il secondo giorno, anche una coperta. Piatti o bicchieri erano insufficienti per poterne distribuire uno a testa, cosicché molti dovettero mangiare e bere nello stesso recipiente. A mezzogiorno ci diedero da mangiare carne cotta con tuberi di jams; per bere non vi era che acqua piovana assai sporca.
Il giorno seguente ci fu comunicato che saremmo stati internati nel Sudan francese lungo il fiume Niger nell'interno della regione ad 800 km dalla costa; che inoltre avremmo percorso 250 km in ferrovia e 500 km a piedi. Quando ci venne l'ordine di apprestarci per la marcia protestai, e presentai poi un'istanza chiedendo di essere rimandato in Germania avendone diritto perché medico. Mi risposero che avevo, è vero, questo diritto, e che l'istanza sarebbe stata inoltrata; ma che, intanto,
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avrei dovuto marciare insieme agli altri verso il luogo assegnato, molto più che in esso mancava assolutamente qualsiasi medico francese. Fu permesso agli ufficiali di portare due fagotti, contenente il primo la biancheria più necessaria e il secondo la stoia ripiegata per dormirvi. Agli uomini di truppa fu permesso invece, di trasportare un solo fagotto per ogni due uomini ed una stoia.

2. A Savé.

Il 21 settembre partenza per Savé, 250 km a nord-est di Cotonou. Alle 6 della sera prima ed unica distribuzione dì rancio. Ricovero degli ufficiali nelle baracche della stazione, e degli uomini di truppa nelle capanne dei negri. La marcia da Savé fu iniziata in due riparti. Io fui incaricato dal Governo francese di addossarmi le cure mediche del primo riparto. La descrizione seguente delle lunghe marce la faccio in base agli appunti segnati, giorno per giorno, nel mio taccuino.

3. La via dolorosa. Verso il cuore dell'Africa.

La marcia durò dal 22 settembre al 27 ottobre. Il tratto da Savé a Gaya è lunga 510 km; Gaya stessa è lontana 800 km dalla costa. La marcia ebbe luogo sulla unica strada che da Savé conduce al nord fino al Niger; una via militare che può essere percorsa anche da autocarri. Nei primi giorni ci facevano entrare in marcia la mattina fra le 5 e le 6, dimodoché dovevamo camminare proprio sotto la sferza del solleone. Più tardi, visto che con quel metodo non saremmo arrivati a destinazione,
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ci fecero marciare nelle primissime ore fra il tòcco e le due per farci poi riposare nelle ore più calde. Comunque, dovevamo soffrire molto per il calore torrido, perché il sole verso le 8 della mattina scottava già in modo indicibile. I malati ai piedi non potevano procedere che lentamente e obbligavano a lunghe pause straordinarie il resto del convoglio. Qualche volta ci fecero marciare anche durante le ore del pomeriggio. Il calore si manteneva costantemente fra i 30° e 45° all'ombra; al sole poi, per l'intensiva rifrazione dei raggi, saliva fino a 80. Non eravamo assolutamente equipaggiati per lunghe marce sotto un clima tropico. Dopo qualche giorno molti prigionieri dovettero persino proseguire a piedi scalzi sul terreno addirittura scottante. La maggior parte dei nostri compagni di sventura – commercianti, impiegati, missionari, maestri – non essendo affatto allenati per marce lunghe, anzi fiaccati in gran parte dallo stesso soggiorno nei tropici e divenuti quindi incapaci a qualsiasi resistenza si ammalarono ben presto e furono impossibilitati a proseguire a piedi nella interminabile e dolorosa via. Molti chiapparono le febbri malariche, altri risultarono affetti da dissenteria. Ciò non pertanto i poveretti, ridotti in uno stato da far pietà, dovettero sottoporsi al continuo tormento della marcia, seminando dei loro corpi zoppicanti la via. Alcuni riparti, infatti non potendo procedere compatti, percorrevano la via alla spicciolata e dal primo all'ultimo intercedeva talvolta la distanza da 10 a 15 km. I più tardi, perché sofferenti e coi piedi gonfi, venivano raccattati a sera inoltrata dall'autocarro carico di valigie. Io stesso ho veduto i miseri abbandonarsi, esausti, lungo i lati della via, finché i soldati di scorta negri non li rialzavano a colpi di calci del fucile. Si
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ebbero molti casi di insolazioni. Durante l'interminabile via non si poteva avere quasi mai acqua, perché nei punti dove avveniva di far delle piccole soste, generalmente non ci erano villaggi. Quasi sempre la carovana doveva percorrere distanze dai 30 ai 35 km prima di trovare un po' d'acqua; e questi percorsi eran chiamati "le marce della sete". Circa 20 dei deportati erano assolutamente impossibilitati a proseguire. Fu concesso, allora, a 5 di essi arrampicarsi nell'autocarro; gli altri dovettero proseguire, zoppicando, il calvario e l'ufficiale francese proseguiva in automobile. Spesso, e per ragioni sconosciute, risuonava l'ordine anche agli infelici dell'autocarro: "Tout le monde marche!" ed allora malati, deboli ed esausti, tutti dovevano ricominciare fare il martirio e proseguire arrancando e gemendo. Le mie proteste, ormai, non valevano più a nulla. I malati avanzavano ciondolando e lamentandosi a gruppi di due o tre accompagnati da un soldato negro per ogni gruppo, e la tortura durava, spesso, un giorno intiero, nella via soffocante sotto un sole di fuoco. Era uno spettacolo atroce.
Se la decisione del Governo francese, di internare in un clima tropico prigionieri di guerra europei, era di per se stessa inconcepibile ed inumana, allo stesso modo può dirsi un tormento inutile costringere persone non esercitate e malamente equipaggiate, esaurite in parte per il lungo soggiorno nei tropici, a tali marce feroci senza una ragione plausibile. Per comprendere tutta la barbarie e la ferocia di tali ordini, basta pensare che nemmeno sotto un clima mite e sano sarebbe possibile a prigionieri giovani e forti resistere alla fatica ed alle privazioni di una marcia interminabile. Or, quei poveretti eran consunti dal cattivo nutrimento, arsi dalla sete, fiaccati dal
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sole torrido, esposti ai pericoli del clima, minati dalle malattie tropicali. Tutto ciò suonava scherno alla tanto vantata umanità delle cosiddette Potenze civili. Ascrivo esclusivamente a miracolo che fra 146 compagni di sventura abbiamo perduto un camerata soltanto. Comunque le conseguenze delle fatiche e dei patimenti di quella marcia, hanno influito durevolmente e sfavorevolmente sulla salute dei più.
Inutile parlare di un buon trattamento dei malati. Dal Governo francese non ricevemmo medicamento alcuno per le malattie tropicali colla scusa che nelle stazioni dell'interno ne avremmo trovati a sufficienza. La verità fu che non potemmo ottenere né un rotolo di garza né una pastiglia di chinino e se noi medici non avessimo avuto la precauzione di portar qualche cosa da Lome, la maggior parte dei nostri camerati sarebbero morti per via. In un solo riparto di 80 uomini io aveva da curare giornalmente dai 30 ai 50 ammalati. Nei 30 giorni che durò la marcia dovetti curare ben 1100 persone ossia in media 37 al giorno. I disgraziati o avevano i piedi enfiati e sanguinanti, o si sentivano sfiniti, o erano consumati dalla malaria, dalla dissenteria o dalla febbre biliare emoglobinurica. Persino questi infelici dovevano portarsi avanti a forza di tormenti… …E non avrebbero costato di più all'"umanissimo " Governo francese, se li avesse ricoverati negli ospedali della costa.
Un giorno l'ufficiale francese che guidava il convoglio, in apprensione per lo stato disperato dei più e non volendosi caricare la coscienza di troppo grave responsabilità telegrafò a Dakar per sapere quello che si sarebbe dovuto fare. La risposta telegrafica venne con grande prontezza: "Tutti i Te-
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deschi continuino la marcia, coûte que coûte!" Si può dire che andassimo alla ventura, perché il Governo francese non aveva proceduto a preparativo alcuno in quelle plaghe selvagge, né si era curato del nostro vettovagliamento né di un alloggio degno almeno per i malati. Tanto gli ufficiali come gli uomini dovevano ripararsi, infatti, in luride e piccole capanne di negri, conteste di paglia, e nelle quali collocavamo le nostre stoie sulla nuda terra per passarvi la notte. I soldati prigionieri dovettero le più volte dormire all'aperto e furono sorpresi e inzuppati fino alle ossa dalle piogge improvvise e torrenziali che si scatenano in quei luoghi nel settembre e nell'ottobre e che si chiamano "tornados".
Il vitto di ogni giorno per mesi e mesi, mattina e sera, senza mai un cambiamento fu questo: un giovenco malato di tripanosomiasi (malattia cagionata dalla puntura della mosca tsetsè o naganà), di una paurosa magrezza e per la marcia e per il mal nutrimento, veniva macellato, tagliato in pezzi, e, così, ancor caldo, cotto dai negri in un marmittone di ferro insieme a tuberi di jams. Colazione non ne ricevevamo: non si parli dunque di caffè che avevamo cancellato dalla memoria. Dalla notte al tocco fino a mezzogiorno dovevamo marciare a stomaco vuoto. Per via non potevamo comprar nulla perché solo di quando in quando incontravamo casolari abbandonati. Saziavamo la sete con acqua piovana, – raccolta dagli indigeni in grandi recipienti di terracotta, – sudicia e brulicante di larve di zanzara.
A queste condizioni era impossibile dare ai malati un qualsiasi ristoro. Nei primi giorni rimandai verso la costa, perché fossero ricoverati nell'ospedale, alcuni colpiti da dis-
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senteria, ed un soldato malato di appendicite. Ma il secondo riparto in marcia li trattenne e dovettero ricominciare la marcia verso l'interno. Più tardi ebbi la proibizione esplicita di inviare malati verso la costa. Anche i colpiti da febbre ittero-ematurica, per i quali un'ulteriore marcia poteva significare la morte, non dovevano essere rimandati, ma deportati nell'interno dell'Africa. Se questi disgraziati non hanno cessato di vivere, lo debbono alle cure amorose e piene di abnegazione dei loro compagni.
Coperto il tragitto fino a Bembereke, lontano 270 km dal punto di partenza, protestai con tutte le mie forze contro la prosecuzione della marcia. Quasi tutti erano completamente estenuati, per la maggior parte malati, colle scarpe rotte, abbattuti nel corpo e nello spirito per le fatiche inenarrabili e il nutrimento insufficiente. L'ufficiale francese, essendosi finalmente convinto che sarebbe stato impossibile continuare la marcia, mi diede l'incarico di indicargli quali erano i prigionieri che, sia per malattia, sia per esaurimento, sia per mancanza di scarpe, non potevano proseguire. Ne misi da parte un gruppo di una cinquantina, inviati subito col l'autocarro fino a Kandi 110 km distante. Essendosi ammalati tutti i medici toccò a me a percorrere a piedi il resto del tragitto insieme agli altri 25. Tirate le somme, avevamo percorso 380 km in 20 giorni, compresi i 6 giorni di sosta.

4. A Kandi.

A Kandi, una stazione militare d'una certa importanza, rimanemmo noi e i due riparti che ci seguivano – in tutto 180
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uomini – circa 15 giorni per rimetterci dalle fatiche del viaggio.
Gli ufficiali erano collocati in due grandi capanne di mota col tetto di paglia; gli uomini in piccole capanne circolari dei soldati negri: 4 uomini su 4 metri quadrati di spazio. La solita stoia fungeva da letto; il rancio consisteva come sempre in carne e jams; per bere l'immancabile acqua piovana sporca e terrosa. In questa stazione militare potevamo fare acquisto, pagandolo un occhio, di granturco, di fufù (gli indigeni chiaman fufù il jams passato allo staccio), di certi gnocchi di farina preparati Dio sa come dai negri, – gnocchi acquosi intrisi con latte acido e birra di dura. Anche qui, per mancanza di chinino, si ebbero gravi casi di febbri malariche. Dopo tanto battagliare potei avere dalla farmacia della stazione 50 grammi di chinino; ma che cos'erano 50 grammi per 180 uomini? Da Cotonou mandarono ancora 20 paia di scarpe di tela che si consumarono e furono inservibili dopo soli 15 giorni. A Kandi protestammo ancora una volta contro il proseguimento della marcia e chiedemmo un vitto migliore, colazione alla mattina e maggiore assistenza per i malati. Il capitano Bosch ci disse che noi eravamo ormai "fuori del diritto delle genti". Il 26 ottobre fui incaricato di scegliere 60 uomini in grado di marciare fino a Gaya. Mi dissero che, infierendo a Gaya la dissenteria, avrei dovuto scegliere uomini di intestini sanissimi. In quanto agli ufficiali non era necessario perderai in iscelte, perché vi sarebbero dovuti andare tutti, anche quelli che soffrivano di dissenteria. Il 26 e 27 ottobre partimmo in due autocarri, percorremmo ben 100 km, quindi, scesi, dovemmo percorrere altri 20 km
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a piedi sotto la sferza di un sole equatoriale, e giungemmo a Gaya sul fiume Niger.
Tutta quanta la marcia da Savé a Gaya era stato un tormento inutile e feroce. Tutti eravamo profondamente persuasi che i Francesi si volevano servir di questo messo per farci morire senza bisogno di ammazzarci. Il trattamento spietato ed infame era la prova più lampante. Aggiungo che, intanto, gli ufficiali come i sottufficiali e gli uomini di truppa furono sottoposti al medesimo identico trattamento riguardo al vitto, all'alloggio ed alla vigilanza.
Circa 100 persone erano rimaste nell'accampamento di Kandi, dove il professor Zupitza, i dottori Herrmann e Schmidt curavano i malati. Gli altri 80, fra cui quasi tutti gli ufficiali, rimasero nell'accampamento di Gaya dalla fine di ottobre alla fine di marzo. Il capitano von Hirschfeld era addetto all'ispezione ed io fungevo da medico curante.

5. A Gaya.

Gaya sul Niger, nel Sudan francese, appartiene al "Territoire militaire Haut-Sénégal". Trovasi circa 800 km distante dalla costa nel cuore dell'Africa, in una plaga selvaggia tanto nei rapporti della natura come in quelli dei negri che vi abitano. È una steppa sterminata nella quale non cresce che erba. Gli indigeni sono dediti all'allevamento del bestiame. L'agricoltura è limitatissima e si estende quasi esclusivamente al granturco e alla dura. Gaya è una piccola stazione occupata da tre europei; accanto ad essa sorge un villaggio di negri con 500 abitanti. Il clima è più caldo e più asciutto che alla costa.
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Specialmente nell'epoca della siccità l'afa era insopportabile e il caldo raggiunse spesso 46 gradi all'ombra. Anche durante la notte il calore era insopportabile. Vi infuriavano le febbri malariche e la dissenteria. Fu per questa ragione che, partendo da Kandi, avevo dovuto scegliere gli uomini più sani e più robusti. Le zanzare infestavano talmente l'aria che al calar del sole era impossibile trattenersi all'aperto senza correre rischio di rimanere infettati e di prendersi migliaia di punture dolorosissime. Pochi erano i felici possessori di uno zanzariere; più tardi, ma dopo molti mesi, il Governo francese si decise ad inviarne qualcuno.
Se ripenso al tempo trascorso a Gaya, non posso fare a meno di definirlo un tempo pieno di dolori e di atroci patimenti; una vita da inferno. Specialmente i primi mesi, in quella landa inospitale e incivile furono orribili. Più tardi le cose migliorarono alquanto, sia per contratta abitudine, sia per il vitto più vario, sia anche perché avemmo modo di acquistarci qualche arredo o qualche comodità. Tuttavia la nostra esistenza rimaneva indegna di esseri umani, specialmente per noialtri ufficiali.
L'alloggio era primitivo e più meschino di quello degli stessi negri rifugiati in capanne di mota, nelle quali, almeno, non pioveva grazie al tetto contesto di paglia e di erbe impermeabili. Fummo rinchiusi in un ampio recinto di spine detto "craal", entro il quale sorgevano una accanto all'altra, circa 20 capanne di paglia distribuite in una superficie relativamente piccola. Ogni capanna doveva bastare a 4 persone. Le pareti eran di stoia, sottili, intrecciate dagli indigeni, legate a tronchi
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d'albero conficcati in terra. Il tetto era formato d'un sottile strato di paglia che non ci proteggeva né dagli orribili calori della siccità, né dalle piogge torrenziali. Durante l'estate, nell'interno di queste capanne vi era una temperatura costante che andava dai 40° ai 46° tanto di giorno che di notte. Mancava assolutamente tutto: letto, tavolino, seggiole, lavamano. Non vi erano che le pareti e la nuda terra. Il nostro giaciglio consisteva ancora nella stoia che avevamo portato da Cotonou. Ma non per lungo tempo; ché, le formiche termiti che ci visitavano a milioni, ce le divorarono in breve tempo. Ci costruimmo allora dei letti veri e propri comprandoci dai soldati tronchi, legname e canapa. Piantammo anzitutto quattro tronchi in terra che dovevano servire da gambe del letto. Sulle quattro gambe inchiodammo quattro regoli che intessemmo di canapa fortemente attorcigliata: questo sarebbe stato il materasso sul quale deponevamo la stoia mezzo divorata dalle termiti... Quando giunsero le prime casse di vettovaglie, potemmo farci con esse qualche seggiola e qualche tavolino… Le scatole di latta e i barattoli della carne in conserva od altro, erano articoli di lusso, e servivano a completare il nostro arredamento. Per l'illuminazione ci servivamo di un certo burro o grasso africano, detto "schi", che gli indigeni estraggono dai semi della pianta africana illipe. Frattanto i nostri abiti ci cascavano a pezzi da dosso. Dal gennaio al marzo dovetti andarmene a piedi scalzi entro l'accampamento. Perché non solo non v'erano scarpe da comprare, ma qualsiasi altro oggetto o indumento necessario ad europei. La maggior parte dei prigionieri cominciavano a sentire un bisogno così imperioso di biancheria, che molti stavano quasi nudi. Eravamo costretti a lavarci i nostri cenci e solo più tardi
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gli ufficiali poterono servirsi di una lavandaia negra. Gli ufficiali dovevano tenere in ordine le loro capanne, lavarsi le poche stoviglie e cucinare. Oltremodo dura ci rimase la mancanza assoluta di qualsiasi comunicazione colla patria: soltanto dopo 5 mesi di prigionia cominciarono a giungere le prime lettere. I giornali erano proibiti. Sol di quando in quando brandelli di giornali di date differenti, trovati qua e là, ci venivano offerti in lettura. Libri non ve n'erano, se se ne eccettuano tre o quattro che qualche prigioniero aveva potuto portar seco. I giuochi sportivi erano proibiti. Nulla rompeva la fiaccante e atroce monotonia di quell'infame residenza.
Il vitto consisteva esclusivamente in prodotti dello stesso paese. Si dovevano distribuire giornalmente e a testa 300 grammi di carne, 150 grammi di farina di granturco, ½ kg di legumi, (ossia tuberi di jams e le cosiddette batate del Canadà), 500 grammi di farina di dura, e 30 grammi di burro liquido. Ma è inutile dire che le quantità non corrispondevano mai nemmeno approssimativamente. E non c'era verso che si uscisse dalle cinque cose. Mancandoci assolutamente qualsiasi altro ingrediente o condimento, nonché latte, uova e frutta, si comprenderà bene come le 5 cose suddette con ci permettessero che una preparazione semplicissima, eternamente eguale e tale che, dopo poco tempo, la farina di granturco e di dura, i legumi e il jams, ci movevano, a schifo. Era proibito severamente l'acquisto di qualsiasi ingrediente, Se, ora, si pensa che nel paese abbondavano uova, burro, latte, pepe, miele ed altro, si penserà alla infamia del barbaro divieto. Solo a partire della metà di decembre ricevemmo o meglio dovevamo ricevere – a testa
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e al mese un terzo litro d'olio 15 grammi d'aceto, 1 kg di caffè, 150 grammi di tè, 1 kg di zucchero e 30 grammi di pepe; oltre a ciò 200 grammi di farina al giorno. I suddetti generi furono, però, distribuiti solo di quando in quando, irregolarmente e in quantità arbitraria, sempre colla scusa che le provviste erano esaurite. Comunque, l'innovazione fu per noi un grande beneficio, e lo si comprende se si pensa che fino alla metà di decembre non avevamo mai mangiato un pezzetto di pane né bevuto una tazza di caffè o di tè. Finalmente potevamo cuocerci un po' di pane, ciò che facevamo intridendo farina di grano con farina di dura. Potemmo ancora costruirci un forno cominciando dal formare e cuocere mattoni di argilla che abbondante si trovava nel luogo.
Due sottufficiali tedeschi erano addetti alla cucina consistente in due grandi recipienti di ferro riparati dal sole per mezzo di un tetto di paglia di nostra costruzione. Altri arredi non ci erano stati distribuiti. Dagli indigeni comprammo un po' di vasellame di terracotta; tutto il resto fummo forzati a farcelo colle nostre proprie mani non essendovi nulla da comprare. Le legna da ardere dovevano essere portate da lontano, ed alcuni di nostri uomini si incaricavano della faticosa bisogna. Fino alla metà di decembre supplimmo alla mancanza di caffè mediante un decotto di granturco arrostito e poscia macinato mediante due pietre lisce. Il tè per i malati lo preparavo io servendomi di citronella, un'erba selvatica di sapore agrino. Non era facile il compito della cucina al sole ardente, accresciuto dal fuoco necessario per cuocere i cibi. Per bere ci davano l'acqua sporca del Niger, che luridi galeotti indigeni andavano a prendere non molto discosto da un luogo ove i negri solevano
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bagnarsi.
La mancanza di qualsiasi assistenza ai malati forma un capitolo speciale. Dati gli inconvenienti igienici, la dissenteria si propagò subito in tutto l'accampamento. Il 70 % dei prigionieri furono ben presto colpiti dal male. Nessuno si poté poi salvare dalle febbri malariche. Molti, guariti, ebbero reiterate e gravi ricadute. Era stata introdotta la profilassi col chinino, ma mancando spesso e completamente questo prodotto indispensabile, non poté essere sempre osservata. Le conseguenze furono che, oltre le febbri malariche, chiapparono anche le febbri dalle urine nere, e ci fu anche qualche caso di tifo. Malattie di stomaco e di intestini, determinate dal cibo grave e insufficiente, erano all'ordine del giorno. I malati erano 35 – 50 al giorno, ossia 3500 giorni di degenza in 150 soli giorni. In altre parole: di 80 prigionieri 54 erano in media sempre malati, e ciò forma una percentuale del 67,5 %.
L'approvvigionamento dei medicamenti era oltre ogni dire manchevole. Quelli portati da Togo duravano poco tempo e nuovi non ne venivano distribuiti altro che a spizzeca e dopo insistenti richieste e proteste. Nonostante ripetute domande, lettere, e telegrammi a Njame, Sindere, Cotonou, Petakou, l'approvvigionamento dei medicinali fu più che vergognoso… Niente c'era per gli infelici ammalati di dissenteria. Da Kandi mi avevano mandato un bisturi, uno schizzetto ed un paio di forbici; ma dopo 4 settimane mi fu rilevato tutto. Più volte mi vidi costretto ad aprire ascessi e paterecci con un coltello da tasca bene arrotato. Quando, il 24 novembre, il medico francese dottor Bonrepaux venne a fare una visita di ispezione, non
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mancai di fargli notare il delittuoso abbandono in cui eravamo lasciati e gli diedi una lista contenente i più importanti strumenti e le medicine indispensabili… Dopo 4 settimane arrivò una cassettina contenente oggetti ben diversi da quelli ordinati; comunque, anche questi, assolutamente insufficienti dato il gran numero dei malati. Strumenti non ne vennero. Anche da Cotonou non mandarono nulla, per quanto nel novembre, decembre e gennaio, fossero stati spediti telegrammi e lettere tanto a Cotonou quanto Dakar. Uno dei nostri ufficiali poté leggere nello scrittoio della stagione il seguente telegramma di risposta: "Impossibile fornire nuovi medicamenti destinati prigionieri tedeschi perché preventivo concesso ormai sorpassato." Quando il 27 febbraio 1915 il dottor Bonrepaux ritornò, lo misi al giorno dello stato di cose e non mancai di protestare energicamente. Mi disse allora d'avere inoltrata alle autorità le mie richieste, e che questo era tutto quanto aveva potuto fare. Aggiunse di non potere spedire altri medicinali essendone a corto lui stesso. Mi consigliò di mandare a Cotonou più malati che era possibile, che lui si sarebbe incaricato di ottenere il consenso. Solo allora – osservò – il Governo avrebbe riconosciuto l'errore commesso e si sarebbe convinto che le cose non potevano più andare avanti in quel modo. Egli stesso aveva consigliato il Governo di sopprimere quel campo e di mandare in Francia i prigionieri, ma il Governo non voleva riconoscere di avere commesso un errore madornale. – Il 6 marzo 1915 potei finalmente ricevere un bisturì, un paio di forbici, una pinzetta e una siringa da iniezioni.
Questo fu tutto. Null'altro fu fatto per i tanti e gravi malati. Non esisteva ricovero che fosse degno del nome di
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ospedale. Qualsiasi altro arredo, indumento, attrezzo, istrumento per la cura dei degenti mancava completamente. I miseri colpiti da febbre o da altro morbo giacevano sul nudo terreno, nelle loro capanne, curati alla meglio dai loro camerati, per lo più malati anch'essi. Una capanna vuota fungeva da farmacia, ma mancava tavolino, seggiola o qualsiasi altro mobile. In mancanza di una bilancia ne feci io stesso una e servendomi di asticciuole e di cartone. Pastiglie di aspirina di un grammo esatto, facevano la funzione di pesi.
Per i malati di dissenteria e di intestini ricevamo [sic] in blocco 5 litri di latte, 6 uova e poco riso indigeno. Solo dopo la visita del medico francese, alla metà del decembre 1914, ricevetti qualche poco di più. Il 9 marzo 1915 partì, dietro consiglio del medico francese, il primo trasporto di malati per Cotonou, e ad esso tennero ben presto dietro altri trasporti. Il 17 marzo venne in ispezione un ufficiale francese di nome Durif, il quale mostrò di ascoltare le mie proteste. Ma ciò fece per una raffinata cattiveria, perché, terminato di parlare, mi osservò esser lieto di costatare che noi altri prigionieri venevamo trattati "comme des princes, comme des Grands-Seigneurs". Aggiunse che ci avrebbero però condotti ben presto alla costa essendo troppo difficile e dispendioso mandare gli approvvigionamenti fino a lassù.
Alla fine del marzo l'accampamento fu tolto. Gli ufficiali furono inviati a Widah lungo la costa; un certo numero di malati prese la via di Francia, il resto se ne venne ad Abomé. Io dovetti andare, invece, per ordine del Governo francese, al campo di concentrazione di Kandi.
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Tengo a rilevare che le autorità locali, prive di tutto e nell'impossibilità di procurarsi checchessia, non avevano gran colpa delle pietose condizioni in cui versavamo. La colpa era tutta delle autorità centrali di Cotonou e di Dakar che ci avevano mandati 800 chilometri lontano, in una plaga deserta e stepposa abitata da pochi selvaggi, perche vi morissimo lentamente uccisi dal cattivo nutrimento, dal clima e dal male.
Anche l'accampamento di Kandi dové essere finalmente soppresso. Una parte dei malati furono mandati in Francia e il grosso spedito ad Abomé.

6. Ad Abomé.

Nel campo di Abomé si trovavano già dal settembre 1914 circa l00 tedeschi portativi dal Camerun; più tardi, nel marzo 1915, ve ne furono condotti altri 150 da Togo.
Tralascio di descrivere le condizioni di quel campo nell'epoca prima del mio arrivo, per quanto mi sia stata dettagliatamente descritta dai prigionieri ed io stesso abbia potuto costatare che le loro narrazioni corrispondevano esattamente alla verità. Riferirò soltanto le mie stesse esperienze in base alle annotazioni del mio taccuino.
Abomé sorge a circa 100 chilometri dalla costa nella zona delle palme oleifere. Vi domina un vero e proprio clima tropico, ardente e soffocante, mortifero per gli europei i quali, fiaccati nelle loro forze vitali, non sono in grado di compiere lavori materiali. Vi si aggiungano le febbri malariche della regione stessa, la dissenteria ed il tifo.
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Giunsi a quella stazione con 10 dei miei uomini. Per primo saluto il tenente francese Bernard strappò la coccarda dal berretto di un camerata. Non essendo mai stato proibito fin a quel momento di portar la coccarda, il soldato che dovette subire quell'onta rimase dapprima alquanto sorpreso e fece involontariamente un gesto di difesa. Non l'avesse mai fatto! Il tenente, irato, gli lasciò andare un colpo di scudiscio attraverso il viso e uno in un braccio. Allora i serpenti francesi di scorta, incuorati dal gesto nefando dell'ufficiale francese, si diedero a distribuire colpi di scudiscio a destra e a sinistra sui prigionieri tedeschi, colpendoli in faccia, nel petto, nelle mani, senza guardare dove i colpo cascavano. Protestai indignato. Il prigioniero F… un uomo dalle forme erculee ma di carattere tranquillo, pregò colla voce tremante che fosse portato un interprete, visto che i prigionieri non parlavano francese. Fu subito portato via. Una grande quantità di soldati negri si godevano quello spettacolo selvaggio e ridevano sgangheratamente. Per quanto il prigioniero F..., si facesse portar via senza opporre la benché minima resistenza, fu da un sottufficiale francese bianco tempestato di pugni che lo colpirono specialmente in faccia facendogli sanguinare abbondantemente il naso. Il gigante cercò di difendersi dai colpi senza percuotere a sua volta. Se avesse voluto, avrebbe mandato a gambe ritte il vile sottufficiale che agiva in quel modo sol perché protetto dalla legge marziale. Vedendo che non gli bastavano i pugni, il sottufficiale afferrò uno scudiscio e strappò quindi dalle mani di un negro il fucile per servirsene a guisa di randello. Il prigioniero si contenne sempre; e, afferrato il fucile per non esser percosso, si mantenne nella pura difesa. Non potei veder bene quello che fu fatto agli altri. La sera, però,
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tutti erano indignati; protestavano, raccontavano le più stomachevoli scene di sevizie e mi mostravano le loro lesioni. Mi dissero che avevano dovuto portar a spalla e caricare il loro bagaglio in vagoni di una ferrovia rurale a scartamento ridotto, e quindi spingere i vagoni stessi per ben 9 chilometri sotto un sole ardentissimo fino al campo di concentrazione. Nonostante che i prigionieri ubbidissero docili né mai tentassero di difendersi si buscarono ininterrottamente, per tutta la via, colpi col calcio di fucile nella regione sacrale e nelle gambe, dai soldati negri aizzati ed incitati continuamente dal sottufficiale bianco Gianzelli, il quale accompagnava i prigionieri vomitando continuamente torrenti di contumelie ed atroci insulti al loro indirizzo. Il turpiloquio era accompagnato di quando in quando, da colpi di scudiscio. Anche il prigioniero G… un uomo anziano e bonaccione, fu tempestato di calci; e una volta che si rivolse dalla parte del sottufficiale Gianzelli fu investito in piena faccia da un colpo di scudiscio. Istintivamente alzò una mano per difendersi. Il sottufficiale Gianzelli dié di piglio al fucile, prontamente afferrato dal prigioniero per non essere colpito. Gianzelli chiamò allora i negri, ed ordinò loro di caricare e di sparare sul ricalcitrante. Visto che i soldati indugiavano estrasse la sciabola ed inferse un colpo così furibondo sulla testa del prigioniero da aprirgli la cute della tempia e, giù giù fino all'orecchio, uno squarcio orribile. Altri colpi avrebbe inferto sull'infelice vittima, se un altro sergente francese un certo Vergnaud, non avesse cercato di tranquillizzare il suo collega. Fradici di sudore macchiati di sangue, sfiniti dalla fatica e dalle privazioni, i prigionieri giunsero la sera nell'accampamento dove furono schiaffati per 15 giorni in prigione.
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La sera potei visitarne alcuni e costatai che avevano il corpo pieno di lividure, di vibici e di sugillazioni. I poveretti facevano compassione. Non c'era parte del corpo sfuggita alla ferocia di quei forsennati. Il giorno dopo fu fatto noto a tutti i prigionieri che, se avessero continuato a tenere una condotta come quella del giorno innanzi, nessuno sarebbe tornato vivo in patria. Per "far crepare" i prigionieri (così ci tradusse l'interprete) i Francesi avevano mezzi in abbondanza, principali questi: lavori fino a scoppiare, fame, prigione, bastonate, e un ordigno di tortura chiamato "pollici".
Quando io stesso fui arrivato alla fine della ferrovia rurale dalla quale, per giungere al campo di concentrazione occorre percorrere circa 800 metri, venne una truppa di soldati tedeschi scortati da soldati negri per prendere il mio bagaglio. Ma fino a quel punto avevo dovuto portarlo in gran parte da me. Avendo osservato che, quale ufficiale, non ero obbligato a trasportare pesi a spalla come un facchino, il negro mi gridò: "Ah, porco d'un tedesco, tu non vuoi fare quel che ti dico?" Risposi tranquillo che ero un ufficiale médecin-major. E l'altro, di rimando: "Un porco tedesco, sei tu!" Ed accompagnò l'apostrofe alzando il calcio del fucile e facendo l'atto di percuotermi. I tedeschi circostanti mi consigliarono a non eccitare il feroce soldato, che approfittava sempre di qualsiasi ammennicolo per sfogare il suo selvaggio istinto sanguinario; ed io, che non mi voleva abbassare fino ad azzuffarmi con un selvaggio negro, presi il mio bagaglio e lo portai all'accampamento. Qui giunto mi recai immediatamente dal tenente Bernard e protestai per il trattamento subìto. – "Cosa vuol che ci faccia!" – rispose quegli facendo una spallucciata. – "Se i tedeschi non trattassero tanto male i
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nostri prigionieri, anche noi tratteremmo meglio i loro", e proseguì: "Oltre a ciò bisogna tener presente che i soldati negri non sanno il francese. E poi, si ricordi – glielo dico subito perché non perda il suo tempo – i reclami e le lagnanze non sono nemmeno permessi. Sarebbe lo stesso che parlasse alla parete. E ora vada pure e tenga a mente bene che alla prossima protesta lo ficcheremo in prigione." Questo preludio mi fece credere d'aver che fare con un uomo della medesima risma di tutti gli altri | ma mi ero, in parte, ingannato; perché innanzi a mesi mantenne sempre corretto. Ebbi l'impressione che i maltrattamenti diminuissero in quel campo dal momento in cui vi entrarono dei medici tedeschi. Tuttavia dovetti più volte costatare con mio immenso dolore che i prigionieri venivano battuti con nervi di bue e martoriati sovente con i "pollici ".

1 giugno. Un prigioniero è stato tormentato più ore con i "pollici" perché ruppe inavvedutamente una lucernina di terracotta ad una sentinella francese.
2°giugno. Un altro prigioniero condannato ai "pollici "per aver risposto non troppo correttamente ad un interprete che lo scherniva…
6 giugno. 16 prigionieri condannati alla cella, uno dei quali coi "pollici", per non aver corso abbastanza celermente mentre si recavano a prendere il rancio.
20 giugno. 4 prigionieri condannati ai "pollici" e alla prigione per avere – dice l'accusa – disobbedito. Altri 4 prigionieri condannati alle bastonate ed al lavoro duro.
27 giugno. Un infermiere in prigione con i "pollici"
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per avermi riferito che un interprete mi aveva ingiuriato dietro le spalle.
Nella prigione, – una catapecchia di mota della superficie e di 5 x 5 metri – si trovavano continuamente dai 10 ai 20 uomini, i quali si buscavano 8-15 giorni di arresti anche per la più ridicola mancanza e spesso non ricevevano da mangiare per giorni e giorni.
Il 29 giugno l'aguzzino Venère rinchiuse per puro capriccio in quella stretta prigione 50 malati e ve li tenne per 3 ore.
Il prigioniero S…, un uomo anziano, fu costretto dai soldati a fabbricare mattoni per ore e ore sempre ginocchioni. I mattoni dovevano servire per edificare la casa dei soldati; e questi, che volevano veder l'opera compiuta più presto, non si peritavano di costringere i prigionieri ad un lavoro tormentoso, perché incomodo, per ore ed ore senza riprendere fiato. Il prigioniero anziano S..., per essere stato troppo tempo in ginocchio, si ebbe una paralisi del peroneo [sic].
Il marinaro scelto Linde di stazione al Kamerun, affetto dal grave morbo di Basedow, orribilmente dimagrato, pregò il medico francese perché lo mandasse all'ospedale dove sperava di essere curato e nutrito un po' meglio. Fu soddisfatto; ma, dopo due giorni, rimandato via dall'ospedale. Il medico francese mi disse personalmente che il Linde stava benissimo. Riferendosi alla paurosa magrezza del malato aggiunse, credo per raffinata ironia, che se avesse mangiato meno o punto per qualche tempo si sarebbe liberato delle sue afflizioni nervose. Aggiunse di
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avergli ordinato "régime spécial", cioè a dire la cura della fame.
Il prigioniero R…, – pure di stazione al Kamerun – consumato dalle febbri e dalla denutrizione, prego l'ufficiale francese d'ispezione che lo mandasse sotto un clima europeo. L'ufficiale promise – è vero – di fare il suo possibile, ma alcuni giorni dopo il medico francese dell'ospedale, dichiarò che "fintanto che comandava lui, nessun tedesco sarebbe uscito dal Dahomé."
Dall'aprile 1915 fu comandante dell'accampamento il tenente Bernard. Egli trattava severamente, ma correttamente i prigionieri. Peccato però che non si trovasse quasi mai nel campo e che non avesse nessuna influenza sui suoi feroci aiutanti. Venère, il tiranno dell'accampamento, piantava del tu a tutti i prigionieri, li puniva colla prigione per qualsiasi mancanza, ordinava i "pollici" per ogni piccolezza; e, senza ragione al mondo, per puro spirito brutale, dispensava e faceva dispensare dai suoi tirapiedi legnate e scudisciate a destra e a sinistra…
Anche qui le solite capanne di fango col tetto di paglia e per letto duri bancacci. Le capannacce erano stipate di prigionieri e piene dei più schifosi ed immondi parassiti.
Io stesso abitavo uno di questi luridi antri. I mobili consistevano: in un telaio fatto di tronchi d'albero e di ossature di palma che serviva da letto, in una seggiolaccia primordiale e in un tavolino sciancato. M'era interdetto di parlare coi prigionieri fuori dell'ospedale e di entrare nelle loro
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capanne.
Il vitto consisteva, a mezzogiorno e la sera, in una porzione di carne con jams o fagioli e 250 grammi di pane. La mattina un po' di caffè o tè. L'acqua per bere o per lavarci dovevamo, andarla a prendere lontano. – Ogni due giorni aveva luogo un mercato indigeno. Banane aranci, zucchero, tabacco, conserve, tutto era caro assaettato. Le banane furono, più tardi, proibite. La maggior parte dei tedeschi fatti prigionieri nel Kamerun non avevano un soldo perché imbarcati così come erano al momento dell'arresto. I loro abiti cominciavano ad essere oltremodo laceri e strapanati. Il denaro tedesco fu cambiato al corso forzoso di 70 franchi per ogni 100 marchi.
Tutti i prigionieri dovettero sottoporsi a lavori duri e, bene spesso, indegni; senza riguardo alcuno al loro grado o professione. Fra essi eranvi persone molto istruite, provviste di titoli accademici; inoltre molti vecchi sottufficiali, sergenti e furieri maggiori. Il lavoro consisteva nella apertura di strade, costruzione di massicciate, trasporto di pietre, costruzione di case, di fontane, lavori di sgombro, fabbrica di mattoni, ecc., sotto la vigilanza dei soldati negri i quali avevano mirabilmente imparato dai loro padroni il mestiere dell'aguzzino. Lo stato sanitario dei prigionieri era, ad Abomé, pietosissimo. Per quanto abituato, qual medico nei tropici, a gravi casi di malattia, inorridii a vedere i corpi miserevoli e disfatti che mi si presentarono per la prima volta dinanzi nel campo di Abomé. Malamente nutriti, la faccia pallida ed incavata, oppressi e timorosi come cani bastonati, quegli scheletri ambulanti si recavano al lavoro. Le febbri e le malattie di ogni
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sorta infierivano nelle loro file. Quasi tutti venivano colti da febbre malariche più volte al mese. La maggior parte di essi erano anemici, cachettici, edematosi; e, molti, colpiti da febbri ittero-ematuriche.
Il cosiddetto nouveau camp, un campo di concentrazione nel quale trovavansi circa 40 prigionieri tutti affetti da malattie croniche e quindi non più in grado di lavorare, presentava uno spettacolo da far rabbrividire. I prigionieri non erano più uomini, ma scheletri. Non ho mai veduto in vita mia pur essendo medico, cose così atrocemente orribili. Questi poveri infelici votati a lenta e terribile morte, non ricevevano ormai più chinino da settimane e settimane. Tormentati ed angariati dai maltrattamenti sopra descritti del medico francese, non vollero più rimanere nell'ospedale. Furono rimandati allora al lavoro duro. Le sevizie che dovevano offrire e il male che li divorava, ridusse ben presto i miseri in uno stato da non potersi più reggere in piedi, e furono rinchiusi allora in questo campo del martirio e della morte.
Il cosiddetto ospedale non era che una capanna di fango col tetto di paglia, nella quale trovavansi 30 bancacci costrutti con grosse nervature della palma "Raphia". I bancacci eran continuamente occupati, perché di numero inferiore al bisogno. Solo i malati gravissimi potevano sdraiarsi in essi. Quando ad un prigioniero era passata la febbre doveva lasciare il posto ad un altro più malato di lui. Ma anche i degenti riconosciuti malati dal medico e lasciati nelle loro capanne, dovettero recarsi sovente al lavoro. Specialmente quando arrivavano nuove provviste ed era necessario caricarle e trasportarle al campo,
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i malati dovevan prestar man forte a quelli sani. Si trattava quasi sempre di carichi di 30-40 chili che dalla stazione di Abomé dovevano essere trasportati per un chilometro al campo. Avvenne sovente che malati, nemmeno in grado di reggersi per la spossatezza del loro misero corpo, caddero esausti sotto il troppo grave peso.
Il nutrimento dei malati era, al principio, più che manchevole. Dopo qualche giorno di "régime spécial", cioè a dire "cura della fame", potevano avere il rancio ordinario, ma senza pane. Per i malati gravi venivano forniti, in blocco, tre litri di vino.
La farmacia era ridotta al solo nome, perché non forniva nemmeno i medicinali indispensabili. Dopo proteste e proteste mi riuscì di avere almeno un po' di chinino. Gli istrumenti chirurgici erano pochi e cattivi.
Le ore di lavoro, che, prima, erano dalle 6 alle 10 della mattina e dalle 2 alle 5 del pomeriggio, poterono essere abbreviate di un'ora e mezza, e cioè dalle 6 alle 9½ e dalle 3 alle 5. Per i tanti malati potei avere, superando continue difficoltà, circa 8 litri di vino al giorno e una diecina di litri di latte. Quando il latte divenne scarso, potei far giungere all'accampamento una cassa contenente 308 barattoli di latte concentrato, un po' di zucchero e delle gallette. Per i malati gravi ottenni che si recedesse dal divieto dell'acquisto delle frutta. Ogni giorno ricevetti 30 aranci, alcune banane, un uovo a testa, e – per i malati di stomaco e tanto perché il cibo non fosse sempre il medesimo – riso e pasta. Tutto ciò non era molto per 30 malati; tuttavia, se si pensa alle privazioni passate,
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poteva dirsi un vero successo. Anche altri 15 bancacci furono collocati nel cosiddetto ospedale. Tutti questi miglioramenti dovettero essere strappati a viva forza dai francesi con una lotta sorda e continua di ogni giorno, di ogni ora, di ogni minuto. Il tenente Bernard, come ho detto, si rivelò tutt'altro uomo da quello che mi era apparso nel primo momento. Fu, verso di me, sempre corretto, quasi cortese; e più tardi anche accessibile. Compresi bene che aveva, però, della gran canaglia dintorno, specialmente i suoi aiutanti e il medico francese, i quali, se fosse stato in loro, ci avrebbero fatto crepare come cani…
Qualche volta perdevo la speranza di salvare quei tanti disgraziati; e non son certo come sarebbe andata a finire se la permanenza in quel clima micidiale fosse durata più a lungo.
In 42 giorni curai 4912 casi, ossia 117 al giorno. Circa 25-30 prigionieri erano, ogni giorno, all'ospedale gravemente ammalati; altri 20-30 "en repos" nelle loro capanne, e circa 40 malati cronici e inabili al lavoro in quel tal campo orribile, vera stanza mortuaria, di cui ho parlato sopra. In tutto, quindi, dai 90 ai 100 prigionieri completamente inabili e degenti, e altri 50 o 60 in cura per cause diverse di secondaria importanza. Nella maggior parte dei casi si trattava di febbri malariche acute, in parte perniciose con sintomi cerebrali, febbri palustri croniche (anemia, cachessia, idropisia). In quelle 6 settimane ebbi anche 20 casi di gravissime complicazioni dovute alle febbri ittero-ematuriche. Di questi casi due condussero alla morte; altri sette erano deceduti prima che venissi io. Vi era
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inoltre da curare dissenteria, tifo, condizioni di debolezza, affezioni cardiache, ecc., ecc. Il 28 giugno 1915 ci fu comunicato che noi tutti avremmo abbandonato questo inferno; che, però, saremmo stati condotti al Marocco, adibiti colà alla costruzione di ferrovie e trattati così male da desiderare il ritorno ad Abomé. Il 4 luglio, la mattina alle 3, partimmo per Cotonou. 70 prigionieri erano così malati che non poterono percorrere la strada fino alla stazione, anche per gli altri fu difficile, tanto la debolezza si era impossessata dei loro corpi. Fu una partenza veramente pietosa.
Giungemmo a Cotonou a mezzogiorno. I malati gravi furono condotti all'ospedale, gli altri collocati nelle baracche della dogana. Il 5 luglio li rividi a bordo del vapore "Asie".
Durante il viaggio che durò fino al 18 luglio, gli ufficiali e le loro signore furono alloggiati in buone cabine; era però loro interdetto di salire anche una sola volta sopra coperta per prendere una boccata d'aria fresca.
Nelle cabine regnava un calore insopportabile. Per il bambino della baronessa Codelli, una creatura di 6 mesi, si poté avere un poco di latte, insufficiente al suo nutrimento, solo dopo gravissime difficoltà.
I soldati erano stipati nelle stive, fitti come le aringhe, parte su brande, parte sulle nude tavole. Anch'essi non potevano mai recarsi in alto a prendere aria fresca, malgrado l'intenso insopportabile calore e il fetore delle stive.
Ai malati si pensò poco o punto. Qualche medicamento l'avevamo portato da Abomé, e fu un bene perché la farmacia di
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bordo non ci poté dar nulla. Due soldati gravemente colpiti da tifo trovaron posto nell'ospedale di bordo, ma furono subito sbarcati a Dakar. Durante la traversata si ebbero nuovi e molti casi di febbre ittero-ematurica. Il 17 luglio i prigionieri sbarcarono tutti a Casablanca e quindi condotti e rinchiusi nel campo di concentrazione di Médiouna (Marocco).
Dal 27 agosto 1914 al 17 luglio 1915, ebbi da curare 10379 casi di malattie. Tengasi presente che i prigionieri da me curati non rappresentavano che una piccola parte di tutti quelli internati al Dahomé. Sarà interessante la seguente tabella riguardante i soli colpiti da febbri ittero-ematuriche:
ammalati morti
a Gaya 8
a Kandi 9 3
in marcia verso Gaya 1
a Cotonou 5 2
a Savé 1
ad Abomé fino al 11 maggio 20 7
ad Abomé dal 11°maggio al 4°agosto 20 2
sul vapore "Asie" 2
a Casablanca 30 7
a Medea 1 1
Totale 97 22

Nella nostra Africa occidentale non si avevano quasi più, in tempi di pace, casi di febbri ittero-ematuriche, e questo grazie alla cura profilattica col chinino severamente osservata.
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Nel Togo, ove domina l'identico clima del Dahomé, nei 6 anni che vi sono rimasto non mi sono ritrovato che a 7 od 8 casi, mentre al Dahomé si ebbero in meno di un anno più di 100 casi, di cui 34 costatati da me stesso. Queste cifre dicono chiaramente quale grande dose di infamia occorra per internare europei nel clima tropico.
Mentre gli uomini di truppa vennero internati a Médiouna, noi altri ufficiali colle rispettive mogli, un bambino ed una serva, fummo mandati ad Algérie. Essendomi stato rubato il bagaglio a Cotonou, non mi fu possibile, per 4 settimane consecutive, togliermi di dosso la biancheria sporca; circostanza assai spiacevole se si pensa ai bollori dei tropici ed al caldo di Algérie… Rimanemmo a Medea dall'11 agosto 1915 al 30 maggio 1916.

7. A Medea.

Da principio il trattamento fu buono. Due volte la settimana potevamo andarcene un poco a passeggio. Dopo 15 giorni questo permesso fu tolto e il nostro campo divenne un campo di rappresaglia. Persino nelle buste delle lettere si poteva leggere più volte la parola "otage". Le rappresaglie consistevano in un cattivo alloggio, in un pessimo vitto e nella serrata delle lettere, pacchi, e vaglia postali fino al marzo 1915. Per un anno intero non potei né spedire né ricevere lettere. I malati erano trattati malamente e qualsiasi facilitazione vietata.
I nostri superiori erano il capitano Schmidt, – un uomo scortese e piuttosto volgare – e due sottufficiali con
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pieni poteri di distribuire punizioni a loro talento.
Alloggio: 14 soldati del Togo stipati in un locale stretto.
Gli ufficiali del Kamerun furono collocati dapprima in un fienile, e, più tardi, perché nel fienile pioveva, in una grande stalla nella quale trovavasi il cavallo del capitano e un soldato arabo. In questa stalla, in mezzo allo sterco, dovevamo consumare i nostri pasti. Tanto nella stalla dove trovavansi gli ufficiali del Kamerun, quanto nel luogo ove erano rinchiusi noi, eranvi seggiole, armadi, od altro. Due tavolini e due banche formavano tutto quanto l'arredamento. Per lavarci dovevamo andare nel cortile a qualunque tempo. Finché la stagione si mantenne calda la cosa fu sopportabilissima, ma quando, nell'inverno, specialmente dal decembre al marzo, cadeva abbondante la neve (Medea trovasi a 950 metri dal livello del mare) dovemmo soffrire atrocemente il freddo avvolti come eravamo nei nostri abiti svolazzanti e consunti di tela bianca o khaki. I giorni più freddi li passammo, quindi, quasi sempre al letto. Stufe non ve ne erano. Ci diedero, è vero il permesso di comprarci una stufa, ma il carbone non ci fu mai fornito, né noi avevamo il denaro necessario per procurarcelo.
La paga era di 75 franchi al mese con ritenuta di 60 franchi per il rancio del mezzogiorno e della sera. Siccome le donne non avevano denaro, dovevamo pensar noi, colle nostre poche risorse al loro sostentamento e a quello del bambino. È vero che alle donne e alla creatura veniva passato gratuitamente il rancio dei soldati, ma noi non potevamo pretendere che essi mangiassero quegli intrugli preparati alla maniera araba. Del resto
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ancora il nostro cibo era cattivo e scarso… Quando il denaro ci venne a mancare, non potendo inghiottire il cibo degli arabi, dovemmo soffrir la fame. Anche la lavandaia pagata da noi non venne più e ci dovemmo lavare colle nostre mani la biancheria anche in inverno mentre cadeva la neve. Alla fine del decembre 1915 giunsero alcuni indumenti di lana, fattici pervenire dalla Croce rossa. Ma questi indumenti non ci furono consegnati che nell'aprile del 1916, ossia al principio della stagione calda. Dopo 15 giorni, però, ci furono ritolti colla scusa che si trattava di indumenti per borghesi. Anche qui i malati furono trattati malamente. Ritornarono le febbri di malaria e lo stato di grande debolezza nei più. Il dottore, anche chiamato d'urgenza, veniva dopo 3 giorni o non veniva affatto. I malati colla febbre a 40°dovevano starsene in pieno inverno nella stalla fredda come una Siberia. Quando feci chiamare il medico perché visitasse il mio collega maggiore medico Zupitza affetto da appendicite accompagnato da febbre, per procedere insieme alla necessaria operazione, quegli fece il sordo e non venne. Tre volte sole mi riuscì di mandare all'ospedale tre signori gravemente ammalati. Le medicine dovevamo pagarle di tasca e, non avendo più denaro, rinunciarvi. I vaglia postali che giungevano al nostro indirizzo furono trattenuti fino al marzo 1916.
Vietato come le pistole corte – non so perché – di fischiettare o canterellare.
Per muoverci non avevamo a disposizione che un piccolo cortile di 40 x 50 metri quadrati. Libri non ce ne erano; ma, a partire dalla metà d'agosto avemmo il permesso di comprarci un giornale.
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Verso la fine del gennaio 1916 venne una commissione neutrale composta di due svizzeri; era però vietato ad essi di parlare con noi e ci passarono alla distanza di 20 metri.
Più tardi venne anche una commissione medica neutrale alla quale fu però interdetto di entrare nel nostro accampamento.
Solo il 24 marzo 1916 ottenemmo il permesso di spedire lettere e ricevere regolarmente tutta la corrispondenza, compresi pacchi e vaglia postali. Dal 1°aprile al 30 maggio fummo messi sotto un nuovo comandante che ci trattò correttamente e tenne innanzi a noi un contegno cortese ed umano…

Würzburg, 17 ottobre 1916.
firmato Dr. Rudolf Simon, Medico primario.

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Allegato No. 5.

Dalla deposizione giurata del sottotenente medico della riserva, dott. H. W. Berger, in data 26 settembre 1916, all'Ufficio coloniale dell'Impero, sulla sua prigionia in Africa.

Neustadt, 26 settembre 1916.

Il 19 settembre sbarcammo a Cotonou. A partire da questo giorno cominciò la fase di Dahomé della nostra prigionia, e con essa un trattamento che perseguiva due scopi: primo, quello di mostrare agli indigeni di Dahomé gli europei della colonia finitima tedesca quali prigionieri di guerra, e l'altro di spergere tutti i Tedeschi della colonia abbandonandoli allo sfinimento, al male ed alle sevizie. I motivi di mostrare agli indigeni di Dahomé un numero più grande che fosse possibile dei prigionieri tedeschi del Togo in tutta la loro umiliazione, sono evidenti. L'intenzione dei Francesi era nota anche agli Inglesi. Il capitano della nave "Obuasi", un certo Sola, faceva sfoggio di una frase tutta sua, che doveva qualificare il gruppo dei prigionieri tedeschi ridotti in male arnese per la prigionia e le marce. Li chiamava: "Monkey show" (esposizione di scimmie). La prima intenzione vien confermata dal fatto che durante il trasporto ferroviario fino a Savé furono adoperati per scorta soldati negri, e che da Savé all'hinterland,
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dove non era ferrovia alcuna, dovemmo procedere a piedi a lunghe tappe in una interminabile strada tracciata e percorsa da automobili. Che il secondo scopo dell'internamento dei prigionieri del Togo a Dahomé non mirava ad altro che all'annientamento di tutti i prigionieri tedeschi ne sono persuasi tutti quelli che furono trascinati nell'hinterland. Il Governo francese conosceva benissimo quali sarebbero state le conseguenze dell'internamento di europei nei tropici e doveva prevedere una fine catastrofica per tutti. Fu dunque proprio questo intento delittuoso che suggerì la scelta della famigerata Dahomé. Il quale intento è risultato evidente non solo per la grande esperienza che il Governo francese ha dei pericoli che il clima dei tropici minaccia gli europei, ma anche dalle espressioni degli stessi ufficiali e funzionari francesi, nonché per il trasandamento colpevole di qualsiasi misura igienica indispensabile nei tropici ed osservata anche nelle colonie francesi. Il trasporto a mezzo di marce forzate, la mancanza della più elementare profilassi contro la malaria e di elmi per tropici, la impossibilità di trattare secondo le norme della scienza le più gravi malattie e l'insufficiente fornitura di medicine, dovevano avere necessariamente le più tragiche conseguenze.
Relativamente alla questione di vita e di lavoro degli europei sotto i tropici il Governo francese, e specialmente le autorità coloniali arbitre dei prigionieri, possedevano esperienze maggiori di qualsiasi altro Governo e autorità coloniale. La medicina ufficiale francese sui tropici si è occupata a fondo della questione se europei possano vivere e lavorare sotto quel clima, ed ha risposto sempre e decisamente di no. Mi basta ricor-
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dare Le Dautée: "Précis de pathologie exotique". Medici militari francesi e professori di università hanno richiamato più volte ed ufficialmente l'attenzione sul pericolo di aggruppamento di bianchi nei tropici, in qualità di colonizzatori o soldati; dichiarandosi assolutamente contrari a qualsiasi lavoro di europei sotto un tal clima. Questi medici e professori portano come esempio, oltre la mortalità dei deportati nella Guyana francese sui quali non è stata pubblicata mai statistica alcuna, le statistiche delle malattie e delle morti delle numerose campagne coloniali con truppe miste. Fra questi esempi troviamo la campagna di Dahomé nel 1893 con 121 casi di morte in seguito a malattia su 1000 soldati bianchi; i peggiori casi del Sudan (Gaya sul Niger, a 110 chilometri più a sud Kandi) ove nelle campagne del 1883-87 si ebbe fra le truppe bianche e di colore una mortalità, in seguito a malattia, di 200-280 uomini su 1000. Aggiungasi a ciò che Cotonou e Abomé-Bohikou sono località note specialmente per la febbre gialla, e che Gaya è notissima ai Francesi come un luogo dove tutti muoiono di dissenteria. È quindi chiaro che gli organi governativi di Dakar sapevano benissimo a quali conseguenze esponevano i prigionieri tedeschi internandoli a Dahomé.
Come risulta da numerosissime dichiarazioni di ufficiali e funzionari francesi, gli stessi adetti per l'esecuzione delle misure imposte dagli organi governativi di Dakar, trovarono oltremodo dure le misure imposte e previdero gravissime conseguenze. Alcuni di essi disapprovarono apertamente il modo di procedere del Governo, ma i loro sentimenti umanitari non valsero a cambiar nulla. Altri, invece, si rallegrarono della misura
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presa a nostro danno e non mancarono di farcelo comprendere con le parole e con le sevizie. Così, per esempio, il capitano Bosch ci dichiarò che non avevamo alcun diritto ad un trattamento umano perché ci trovavamo fuori del diritto delle genti.

Marcia verso l'interno.

Al momento della scelta dei soldati da destinarsi al campo di concentrazione di Gaya l'interprete di Kandi fece subito osservare essere necessario procedere soltanto alla scelta dei più forti e dei più robusti, perché a Gaya vi era un clima avvelenato e tutti chiappavano la dissenteria. Fra gli ufficiali non fu fatta scelta alcuna; dovettero andarsene tutti a Gaya per ordine perentorio degli organi governativi di Dakar. A Gaya l'amministratore Sadoux e il comandante del campo tenente Truffy non poterono trattenersi dal dichiarare apertamente che durante l'epoca delle piogge sarebbe staio impossibile vivere nelle capanne di paglia, a causa delle zanzare. Anche il medico militare Bonrepaux ritenne il luogo disadatto e credo che abbia protestato presso gli organi dirigenti di Dakar. Prima che cominciasse la marcia dei prigionieri verso l'hinterland, il capitano Castain a Savé dichiarò di ritenere assolutamente impossibile il trasporto a piedi fino a Gaya, e cercò di ottenere che fossero messi a disposizione del convoglio alcuni autocarri già pronti. Le autorità preposte gli risposero con un "no" deciso, ed una parte dei prigionieri dovette davvero coprire a piedi il tratto di 489 chilometri da Savé a Gaya. Il medesimo capitano dichiarò più tardi che davvero si vergognava per le stesse autorità francesi che avevano ordinato una ta-
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le infamia, e che avrebbe preferito di essere caduto combattendo nella battaglia sull'Ehra.
Per giudicare quanto feroci fossero queste marce a piedi, bisogna tener presente che non si trattava affatto di soli soldati, ma anche di prigionieri civili e di persone indebolite per un lungo soggiorno nei tropici; che la sussistenza non era organizzata e mancavano del tutto il consueto "comfort" e le misure sanitarie indispensabili agli europei che vivono liberamente nei tropici. La scelta dei prigionieri fu fatta in base a visita medica per stabilire la loro capacità di marcia; ma questa scelta fu fatta in modo veramente spietato dal medico militare francese dottor Mazet per il quale l'età superiore ai 50 anni, le ernie inguinali e le febbri ittero-ematuriche incipienti, non erano sufficienti motivi per escludere i prigionieri. Da tutti si richiesero in media 20 chilometri al giorno di marcia. Deboli e malati di piedi erano all'ordine del giorno, di modo che il capitano Castain, contrariamente alle prescrizioni, dovette permettere ad alcuni malati l'uso degli autocarri già il secondo giorno di marcia. Si ebbero molti maltrattamenti inflitti ai prigionieri spossati. Per dare un sol esempio dirò che il capitano von Hirschfeld fu battuto spietatamente dai senegalesi, perché, non reggendo alla fatica e al male, si era lasciato cadere a terra.
Le marce divennero insopportabili specialmente perché il vitto era orribile e costava grandi fatiche procurarselo e prepararselo. I prigionieri dovevano mettersi in cammino a stomaco vuoto. I pasti venivano generalmente preparati dopo l'arrivo. Il rancio, consistente in una minestra di carne macellata
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di fresco e di jams, era immangiabile. Pane od altri generi alimentari europei non furono, per più di 3 mesi, mai distribuiti, sebbene fosse assai facile, come potemmo persuaderci più tardi, procurarli.
Nelle pause più lunghe, come a Parakou ed a Kandi, furono distribuiti due ranci come quello descritto sopra; oltre a ciò grano della Guinea e farina di granturco; farine che, non mescolate ad altre, non si prestano alla cottura del pane. Per un certo tempo fu permesso di acquistare dagli indigeni cibi e frutta del luogo, ma ben presto ci fu interdetta anche questa facilitazione.
Nel campo di Gaya, dove, nei primi mesi, il vitto fu sempre eguale, ci fu vietato qualsiasi rapporto cogli indigeni in fatto di acquisti, specialmente per quello del miele, avendo il comandante del campo comandato che fossimo trattati "senza pietà". Per queste ragioni il nostro rancio fu, per molto tempo, assai peggiore di quello degli indigeni, essendoci vietato, come ho detto sopra, di acquistare altri generi alimentari, come frutta, miele e pesci che ve ne erano più che in abbondanza. Soltanto più tardi ci furono fornite piccole razioni mensili di farina, di grano, zucchero, sale, pepe, aceto, olio, caffè, tè, vino rosso e rum, e permesso l'acquisto di conserve, tabacco ed altri prodotti con cui trafficavano gli indigeni. Di quando in quando queste razioni ci furono tolte in seguito a punizioni dispensate senza ragione al mondo. Il pane potemmo averlo soltanto quando avemmo costruito un forno colle nostre proprie mani.
L'alloggio durante la marcia in capanne di paglia
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messe su con grande rapidità, era assai peggiore di quello delle consuete case di mota dei negri. Le capanne di paglia di Gaya possono essere forse considerate sufficienti quale ricovero estivo per i negri abituati al clima; comunque, esse erano insufficienti per le esigenze di europei.
Mancavano del tutto, sia durante la marcia sia durante la lunga permanenza a Gaya, quelle previdenze sanitarie che sono indispensabili nei tropici. Il chinino non fu distribuito dai Francesi per la cura profilattica. Dopo aver consumato la provvista che avevo portata da Lome, si ebbe a Gaya una grande mancanza di chinino. Procedere ad una dosatura perfetta era impossibile mancando qualsiasi bilancia. Durante la marcia non si pensò nemmeno alle reticelle contro le zanzare nonostante che a Dahomé infierissero le febbri malariche, ittero-ematuriche e gialle. Anche nell'accampamento di Gaya, vicino al Niger, le reticelle contro le zanzare, (principali veicoli degli agenti patogeni delle più pericolose malattie), ci furono distribuite soltanto negli ultimi giorni della nostra prigionia in quella plaga mefitica. Anche gli elmi per i tropici ci furono distribuiti a Gaya mentre stavamo per abbandonarla.
Oltremodo cattivo fu sempre l'approvvigionamento dell'acqua. Rottosi l'unico filtro che avevamo portato da Lome non ebbi più il bene di vederne un altro. Soltanto a Cotonou e a Bembereke l'acqua per bere era pulita, per quanto non bollita. Durante le pause delle marce veniva tratta, invece, di sottoterra per mezzo di buchi, o dai fiumi dei villaggi; ed era sempre terrosa e piena di larve di zanzare. Per bollire
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l'acqua non v'era quasi mai tempo durante la marcia; del resto mancava qualsiasi vasellame. A Savé l'acqua per bere veniva tratta da certe cavità in cui i negri andavano a lavarsi, o da altre destinate allo spurgo delle materie fecali. A Gaya l'acque per bere veniva presa dal fiume, e più precisamente da un luogo ove solevano andarsi a bagnare i negri e a sguazzare i cavalli.
Naturalmente le autorità francesi sapevano benissimo che un trattamento umano dei malati nell'hinterland era assolutamente escluso. Ma anche quel poco che si sarebbe potuto preparare a questo rapporto, fu intenzionalmente trascurato come qualsiasi altra misura profilattica.
firmato: Dott. Berger, medico governativo.
All'Ufficio delle Colonie dell'Impero, Berlino.
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Allegato No. 6.
Estratto dal rapporto di P. R…, dal Togo.

1. Ad Abomé.

Nel giorno delle Pentecoste del 1915 – 3 giorni dopo il mio arrivo ad Abomé – la censura mi respinse una lettera perché da un passo si sarebbe potuto rilevare il mio sospetto che un pacco postale annunciatomi dai miei parenti ma non giunto nelle mie mani, fosse stato preso da qualche impiegato francese. Per questa ragione il tenente Bernard, comandante dell'accampamento, mi appioppò 15 giorni di prigione. Il locale di arresto era di mattonelle di mota, alto 3 metri, coperto di paglia ed ampio circa 20 qm. L'aria vi entrava per mezzo di un foro praticato nella parete. Durante i 15 giorni del mio arresto la cella fu sempre piena di arrestati surrogati da nuovi prima ancora che gli altri avessero scontata la loro punizione. Una notte vi rimasi rinchiuso con 17 prigionieri per quanto il vano non ne potesse comprendere che 10. Una volta il sergente Vergnaud, procedendo al controllo, trovò un po' di tabacco. Mi domandò a chi appartenesse ed io gli risposi che non lo sapevamo. Irato, il sergente Vergnaud mi condusse da Venère, il quale mi applicò, senz'altro, i famigerati "pollici"; e, quando vide che ero impedito a difendermi, mi lasciò andare due potenti
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manrovesci che mi levarono di sentimento. Fui condotto quindi nel locale d'arresto da un soldato negro che mi costringeva a correre, tenendo alto su di me un nodoso randello. I "pollici" mi furono tolti solo dopo 3 ore. Nelle seconde falangi dei due pollici, schiacciate dalle viti, vi rimasero chiazze sanguigne; i pollici si enfiarono appena tolto l'ordigno di tortura. Per più di 2 ore ebbi il sentimento che i miei diti, specialmente le prime falangi dei pollici fossero morte. Durante l'applicazione delle viti e mentre queste mi stringevano i pollici, dovetti sopportare inenarrabili strazi; molto più perché la piccola lastra di ferro premuta dalle viti mi tagliava la carne. Venère, l'aguzzino, la iena del campo, osservava, stringendo l'ordigno, le contrazioni del volto; e quanto più queste denotavano martirio, tanto più egli stringeva le viti. Noi eravamo completamente in sua balìa, di modo che, ad un suo ordine, noi stessi offrivamo, più o meno spontaneamente, le mani ai ferri. Il vile aguzzino (Venère) ci percuoteva nel volto, sempre quando avevamo le mani impedite e tormentate dall'ordigno e non eravamo in grado dì difenderci.
Verso la metà del giugno 1916, per avere risposto un po' risentiti all'interprete, il ferroviere B..., il commerciante B…, ed io fummo sottoposti da Venère al tormento dei "pollici". Mentre Venère, dopo aver applicato agli altri gli strumenti di tortura e compiuta anche su di me la straziante operazione, mi lasciava andare dei ceffoni, venne il tenente Bernard il quale fece finte di non vedere e comandò fossimo mandati all'arresto. Eravamo da pochi minuti nella cella allorché venne Venère, la bestia; e, armato di uno scudiscio d'ippopotamo, ci fustigò bestialmente nel volto. Il colpo che toccò a me mi pas-
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sò in diagonale sull'occhio destro e fu un vero miracolo se non rimasi accecato. Compiuta la bella prodezza, il bruto si allontanò non visto da nessuno, perché essendo le ore 2 pomeridiane i prigionieri si trovavano al lavoro.
Un giorno udii il prigioniero P…, che si lamentava in modo compassionevole. Immaginai subito che lo sottomettessero al supplizio dei "pollici" o delle bastonate. Infatti, poco dopo, vidi alcuni camerati che lo trasportavano svenuto nella sua capanna.
Ho potuto vedere 3 di questi "pollici" che eran tutti di ferro. Ci fu detto che erano stati costruiti appositamente per noi…
Il medico svizzero Dottor Blanchod si persuase personalmente delle sevizie, osservando nei singoli prigionieri le cicatrici ancora visibili, causate da colpi di scudiscio e dai "pollici".

2. In viaggio verso la Francia.

Il 9 maggio fummo portati – circa 125 uomini – dal Marocco a bordo del "Chaujia" dove, per altri 4 giorni, fummo il bersaglio dell'inestinguibile odio francese. Il locale di carico nel quale eravamo alloggiati si trovava alla profondità di 6 metri e più precisamente un metro sotto il livello dell'acqua. Soltanto per mezz'ora al giorno ci era permesso di salire sopra coperta. Per dormire non avevamo né pagliericci né
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coperte, e dovemmo coricarci sul nudo pavimento tutto sporco di polvere di carbone. Il locale era così stretto che non potevamo stendere nemmeno le spalle, ma eravamo costretti a giacere di fianco. I nostri bisogni corporali dovevamo sfogarli in quel medesimo locale nel quale trovavansi due barilozzi. Il puzzo, la sporcizia del luogo e soprattutto il mal di mare ci costringevano ad un vomito ininterrotto. Eravamo vigilati da soldati negri che ci scaracchiavano addosso e ci battevano col calcio del fucile. Un sergente francese ubriaco, di cui non so il nome, ci minacciò anche col revolver, ed avrebbe certamente sparato se un suo camerata non l'avesse trattenuto. Molta gente veniva nel nostro locale per tormentarci colle ingiurie e le minacce; eran per lo più soldati che non appartenevano al corpo di scorta e che venivano esclusivamente per soddisfare la loro curiosità. Durante le manovre fatte nel Mediterraneo a causa del pericolo dei sommergibili, il nostro locale fu reso completamente impermeabile all'aria e alla luce. Il vitto di bordo per i prigionieri era immangiabile. Giunti a Marsiglia fummo ricoverati in una specie di stalla-magazzino coll'impiantito coperto di tritume di paglia piena di parassiti. Nonostante le notti assai fresche del maggio, non ci fu data coperta. Soltanto a Lione fummo fatti segno ad un trattamento in certo qual modo umano.
Firmato: P. R…, dal Togo.
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Allegato No. 7.

Estratto dal rapporto del maggiore medico in ritiro, prof. dott. Zupitza, sulla sua prigionia.

1. La marcia verso l'interno.

…Il primo giorno venimmo a sapere che tutti, eccezion fatta di pochi ufficiali malati, delle donne e di alcuni signori ammogliati, saremmo stati portati in ferrovia fino alla stazione capolinea e di là a piedi nel cuore dell'Africa, in parte fino al Niger. Il capitano medico dottor Mazet visitò i prigionieri per stabilire la loro capacità di marcia… Dopo 2 giorni cominciò il viaggio in ferrovia. Alle stazioni gli accessi al nostro treno erano vigilati da soldati indigeni, armati di fucili di antico modello…
Il vitto fu sempre il medesimo; ossia due volte al giorno carne e jams; e, nei primi giorni, anche un poco di pane. Gli indigeni ci portavano l'acqua da bere che andavano ad attingere dalle più vicine pozzanghere. Quest'acqua veniva trasportata in bidoni da benzina, muniti di un rubinetto… A Dahomé le misure igieniche non erano sconosciute perché ci fu ordinato, dietro minaccia di punizione, che i bianchi portassero l'elmo dei tropici tutto il giorno dal sorger del sole fino al tramonto… A partire da Savé la marcia verso l'interno doveva, per un tratto lungo circa 600 chilometri, sotto un clima tropico, afoso, opprimente, gravido di elettricità foriera
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di burrasche. L'ufficiale decano, il capitano von Hirschfeld, e noi altri medici, protestammo presso il capo-convoglio, capitano Castain, osservandogli che non eravamo allenati per tali marce e che la maggior parte di noi eravamo stati riformati perché inabili persino ai servizi in patria; altri, indeboliti ed affranti dalle malattie tropicali e dal troppo lungo soggiorno nel clima caldo… Il dott. Mazet ci visitò allora di nuovo; e, insieme al capo-convoglio Castain, informò telegraficamente le autorità francesi che almeno una parte degli uomini ammogliati venuti con noi non erano in grado di sottoporsi all'interminabile marcia, ed avrebbero dovuto essere ricondotti verso la costa.
Il capitano Castain telegrafò una seconda volta a Dakar perché ci consentissero di alloggiare nelle vicinanze di Savé. Insieme ad altri ufficiali ero già salito in un treno che ci avrebbe dovuto ricondurre a Cotonou, quando, proprio qualche minuto prima della partenza, giunse un feroce telegramma del governatore generale di Dakar, il quale comandava che l'ordinata marcia verso il Niger avesse luogo a qualsiasi costo. Nessun ufficiale avrebbe dovuto essere rimandato indietro.
La marcia fu iniziata in due riparti, mentre i malati seguivano in autocarro sotto la mia vigilanza. Del primo riparto stramazzavano a terra affranti dalla fatica, dal caldo e dal cattivo nutrimento, non solamente molti dei nostri uomini, ma persino alcuni soldati senegalesi. Altri si spellarono i piedi a causa delle cattive scarpe: tuttavia dovettero continuare la marcia. Chi, affranto dalla stanchezza, rimaneva indietro, veniva incuorato alla marcia dai negri a forza di colpi col cal-
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ciò del fucile. Tre prigionieri colpiti da grave malattia furono mandaci indietro in amache pensili.
Il secondo riparto non ebbe sorte migliore. Per quanto i due riparti si mettessero in cammino la mattina presto, giungevano alla mèta, fissata giorno per giorno, soltanto verso sera; alcuni persino di notte. Tutti venivano riparati sotto tettoie erette in gran fretta dagli indigeni per mezzo di pali e di paglia… Gli abiti inzuppati di pioggia non potevano essere prosciugati; le tempeste notturne rendevano inabitabili queste tettoie, perché la paglia faceva passare l'acqua da tutte le parti. In seguito a tutto ciò si ebbero sempre durante l'interminabile marcia – numerosi casi di febbri malariche, nonché ricadute e nuovi casi di dissenteria causati gli ultimi dall'acqua infetta attinta dalle pozzanghere. Per bollire l'acqua mancavano anzitutto i recipienti necessari; e poi i prigionieri erano troppo stanchi e troppo esauriti dalla marcia per poter pensar ad altro. Prima di abbandonare Savé pregai prima in iscritto e poi personalmente il capo del distretto perché permettesse che il prigioniero Reimers, affetto da febbri ittero-ematuriche, fosse rimandato verso la costa a causa del suo grave stato. Il funzionario mi rispose che non ci poteva far nulla, perché gli ordini superiori erano troppo rigorosi. Aggiunse che, del resto, il proseguire verso l'interno caricato su autocarro, gli sarebbe stato meno faticoso che ritornare verso la costa in ferrovia. – La mattina della partenza dovemmo trasportare tutti, ufficiali e uomini di truppa, malati e sani, il nostro bagaglio nella rimessa degli autocarri, perché fossero pesati. Prendemmo quindi posto fra i bagagli nel tetto
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dell'autocarro e siccome non vi era posto bastante i nostri piedi ciondolavano nel vuoto. Il malato di febbri ittero-ematuriche fu coricato in mezzo a noi perché traballando non ruzzolasse in terra. Durante il viaggio che durò dalla mattina alla sera, il poveretto fu esposto ai cocenti raggi del sole dai quali noi non potevamo ripararlo che con qualche coperta. I tre soldati negri, invece, addetti alla nostra scorta, se ne stavano dentro, comodamente sdraiati sui sedili imbottiti.
A Parakou, sede di una frazione distrettuale a circa 165 chilometri a nord di Savé, raggiungemmo i due riparti i quali mi assegnarono tutti i prigionieri inabili a continuare la marcia; cosicché il loro numero era salito, a Kandi, a più di 30… Purtroppo Castain, che aveva prodigato alquante cure ai malati, ebbe, dietro sua richiesta, la muta; e ciò fece perché, come ebbe a confessarci, non poteva rimanere indifferente davanti alla indegnità di quei trasporti di prigionieri che egli chiamava "trasporti di schiavi".
A Kandi ci fu notificato che tutti gli ufficiali, insieme agli altri uomini ancora in istato di marciare, – 80 in tutto – sarebbero stati mandati a Gaya sul Niger. I rimanenti, 64 uomini con due medici, restarono a Kandi.

2. A Kandi.

La località di Kandi, popolata da indigeni, trovasi circa 180 chilometri a sud di Gaya in una pianura che lentamente digrada verso il Niger… Ci trovavamo in un periodo
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di brevi piogge cui tenne dietro una lunghissima siccità, interrotta soltanto da alcune settimane di notti fresche. Del resto fece sempre un caldo da scoppiare. Ad est del villaggio indigeno, con le capanne addossate l'una all'altra secondo il fare dei sudanesi, separato da esso da uno spazio aperto largo circa 400 metri, sorgeva un campo vuoto per i soldati, destinati ai prigionieri… Le piccole capanne nelle quali, da una parte dell'accampamento, stavano i prigionieri, e dall'altra le senti nelle di colore, erano di fango e munite di un tetto di paglia acuminato all'uso dei selvaggi. Siccome le pareti esterne e il tetto erano esposte ai raggi cocentissimi del sole equatoriale, – astrazion fatta da qualche giorno di pioggia, – e mancando qualsiasi ventilazione perché la capanna possedeva una sola apertura (la porta), vi si stava là dentro, specialmente la notte, come in una fornace. La superficie di una capanna non era maggiore
di due metri e mezzo quadrati, ed in essa dovevano alloggiare da tre a quattro europei. In una capanna a due stanze, nel fondo dell'accampamento, abitava il medico aiutante Dr.   >Hermann.
… Da una parte dell'accampamento, un po' più a sud verso l'ingresso, vi erano le cucine riservate per i prigionieri. Dietro le capanne si stendeva intorno al campo una specie di stradale nel quale potevamo muoverci liberamente… L'acqua per bere e per lavarci veniva fornita dalla fonte del campo... L'acqua veniva attinta con secchie o mediante grandi zucche secche legate a funicelle a guisa di brocca…
I pozzi erano inquinati e pieni di ogni sorta di germi patogeni. Per quanto la maggior parte di noi si desse la cura di bollire l'acqua da bere appena scoperto che l'acqua era inquinata, pure la dissenteria ed altre malattie intestinali si erano
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già propagate. I prigionieri, poi, addetti ai lavori, non potevano fare a meno, talvolta, per saziare l'atroce sete, che approfittare di qualsiasi acqua che avevano a portata di mano.
Dal gennaio 1915 in poi il livello dell'acqua nei pozzi cominciò ad abbassare di giorno in giorno. Finalmente i pozzi vennero chiusi, e dispensati a testa, e per ogni giorno, soltanto due litri d'acqua per lavarsi, e mezzo litro per bere. Anche le vacche erano state messe a razione. Nel marzo i pozzi erano vuoti e l'acqua dovette essere trasportata da grandi lontananze. Gli indigeni erano incaricati a questa bisogna. Soltanto verso la metà di febbraio giunsero i primi filtri di carbone. Dietro l'accampamento era stata scavata una latrina a sistema di fosse per i prigionieri. Anche i soldati di colore se ne servivano, quando non preferivano insieme alle loro famiglie di lordare i dintorni dell'accampamento e attirare così sul luogo nuvoli di mosche estremamente pericolose…
Il vitto consisteva due volte al giorno in carne e jams; il tutto cotto insieme dai negri in una grande caldaia. Per condimento non vi era altro che sale e burro "sci"; una specie di sego che gli indigeni estraevano dai frutti di un albero, insipido quand'era fresco, rancido e malamente digeribile dopo qualche giorno. Data la cattiva preparazione del rancio da parte dei negri, sporchi oltre ogni dire, ci fu permesso di pensare noi stessi alla cucina, ed alcuni prigionieri più abili in materia di culinaria ai addossarono l'incarico… Il rancio migliorò quando cominciarono a darci anche riso, fagioli, di quando in quando un po' di legumi e qualche droga… Il tentativo di fare del pane con della farina di granturco e di
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un certo grano indigeno fallì finché non giunse dalla costa della farina di frumento. Allora potemmo avere un pane abbastanza digeribile in quantità di 250 grammi al giorno.
Nel marzo fu permesso, finalmente, di fare acquisti cogli indigeni nel campo stesso… Nei primi tempi il campo di concentrazione di Kandi dipendeva dall'amministrazione civile, e il capo del distretto ne era il responsabile. Questo funzionario governativo mi aveva riconosciuto quale decano fra i prigionieri, ed io facevo la spola fra lui e i prigionieri… Dal capo del distretto dipendeva anche un sottufficiale bianco che abitava nell'edificio fra la guardina delle sentinelle e il nostro accampamento; un uomo col quale si poteva parlare. Il capo del distretto ci dichiarò che, secondo istruzioni superiori, i prigionieri di guerra avrebbero dovuto lavorare. Alla mia osservazione che il clima dei tropici non permette il lavoro agli europei; e che, oltre a ciò, quasi tutto il riparto di Kandi non comprendeva quasi che malati più o meno gravi, si contentò di imporre il lavoro duro ai soli prigionieri sani. Ma da quel giorno tutti i prigionieri, esclusi quelli occupati alla cucina e al forno, dovettero recarsi a far legna nella steppa… Per abbattere gli alberi vecchi e secchi vi erano degli spaccalegna negri… Miglioratosi lo stato generale di salute, i prigionieri avrebbero dovuto, dopo qualche settimana, prestarsi anche ai lavori gravi… Avendo i medici protestato, si impose ai prigionieri soltanto un lavoro di mezzo che consisteva nella demolizione di vecchie tettoie e nella costruzione di tavolini, seggiole ed altro col materiale da esse tolto. Infine i prigionieri leggermente malati ebbero l'ordine di
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addossarsi la nettezza dell'accampamento.
Esponendo il triste stato di salute dei prigionieri, causato dal clima avvelenato di quella regione, cercai, con un rapporto al governatore di Dahomé, di oppormi alla pressione esercitata dalle autorità superiori, perché i Tedeschi fossero sottomessi a duri lavori. Le mie motivazioni non furono però riconosciute, e specialmente respinta l'affermazione che europei nei tropici non debbano, per riguardi di clima e di razza, essere adoperati a lavori troppo gravi appena adattati per i negri indigeni… Verso i primi del dicembre 1914 il nostro campo di concentrazione passò all'amministrazione militare sotto la guida del tenente della riserva Gratiani…
Questo tenente cercava di avere a sua disposizione più operai che fosse possibile… Da principio il Gratiani licenziò gli spaccalegna indigeni e ordinò che gli stessi prigionieri si occupassero della ricerca degli alberi secchi, li abbattessero, spaccassero le legna da ardere e le trasportassero nel campo. Cominciò allora a lamentarsi che i singoli prigionieri non gli portavano legna bastanti; anche il numero dei prigionieri addetto a questa bisogna e alla nettezza del campo gli parve che fosse troppo esiguo. Più volte veniva anche alla capanna che serviva da infermeria, e per quanto fosse assolutamente digiuno di medicina, pure voleva chiacchierare e dare i suoi pareri su questo o quel malato. Più tardi fece traslocare l'infermeria nella sua casa e ordinò vi fosse portato l'armadio contenente tutti i medicamenti disponibili. La chiave di questo armadio era tenuta in custodia o da lui stesso o dal suo sottufficiale. Tutto ciò veniva fatto non tanto per un senso di re-
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sponsabilità in quanto alla sicurezza delle medicine, sebbene per altri scopi…
Non andò a lungo che il nuovo capo dell'accampamento chiamò i prigionieri a lavori più gravi. Si cominciò con alcuni soldati che facevano i legnaioli. I tronchi trasportati dagli operai negri dovevano essere segati in tavoloni dai prigionieri, quindi usati per la costruzione dei mobili più necessari… Poco prima del Natale 1914 i lavori gravi consistevano nel trasporto di pietre, nella costruzione di massicciate, apertura di una strada, ed altro.
Protestai più volte ed invano contro tali lavori. Ci fu risposto che dalla costa era venuto l'ordine preciso e perentorio. Pur tuttavia i lavori gravi furono sospesi per 6 settimane e lavorarono soltanto i cuochi, i fornai, i legnaioli ed altri addetti a mansioni sopportabili…
Riguardo alle lotte quasi quotidiane per la protezione dei malati, si noti quanto appresso:
Una mattina, al momento dell'appello prima di cominciare il lavoro, – mancava poco a Natale quando dovevano cominciare i lavori duri forzati – il comandante Gratiani aveva ordinato che si recassero al lavoro cogli altri alcuni malati, malgrado che, facendo sfoggio delle cognizioni mediche che non aveva, avesse tastato loro il polso, esaminato le vene varicose ed altri stati di malattia. Protestai energicamente contro una tale infamia ed ottenni che i malati scelti fossero liberati dal lavoro. Quando, però, poco dopo, il tenente medico Dr. Schmidt fu manda-
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to nell'accampamento di Kandi per aiutarmi, fui punito dal comandante con un futile pretesto; ma la ragione vera fu che io avevo cercato di far pervenire alle autorità della costa un'altra urgente protesta. Quando fui rimesso in libertà, la medesima sorte toccò al tenente medico Dr. Schmidt per ordine telegrafico del comandante di Dahomé per un'altra protesta inoltrata mentre che io mi trovavo in prigione.
Il tenente Gratiani era da poco comandante del campo, quando il sottufficiale francese che lo coadiuvava chiese di essere supplito dal sergente Vergnaud. Questi non faceva che fiutare giorno e notte in tutti gli angoli dell'accampamento. Rappresentava il comandante tutte le volte che questi era chiamato a viaggiare nel territorio per affari di leva. Già il tenente Gratiani aveva più volte punito i prigionieri coll'arresto; ma fu un nulla in confronto della ferocia del sergente Vergnaud che dispensava punizioni e arresti con grande prodigalità. Per qualsiasi nonnulla i prigionieri venivano schiaffati in prigione, moltissime volte per puro e semplice capriccio. Più volte anche malati gravi, febbricitanti, furono rinchiusi nella cella malgrado le proteste del medico.
Il locale d'arresto, destinato, in verità, per i soli negri, era un piccolo locale colle pareti di mota ed un tetto contesto con travicelli, paglia e mota. Una piccola apertura doveva servire all'accesso dell'aria e della luce. Inutile dire che in quel canile vi era, specialmente la notte, un'afa insopportabile da mozzare il respiro. Il recipiente di latta per i bisogni corporali veniva raramente vuotato, e i prigionieri lo trovarono
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più volte già pieno degli escrementi dei soldati negri. Allora le urine e le materie fecali traboccavano, lordavano il pavimento nel quale dovevano coricarsi i prigionieri, appestavano l'aria già di per se stessa insopportabile, e impregnavano di materia contagiose le stoie e gli abiti degli infelici. Qualsiasi protesta per impedire che i puniti fossero rinchiusi in questi locali d'arresto, mortiferi e indegni degli europei, rimase vana. Il medico primario di Dahomé, venuto a visitare il campo in un suo viaggio di ispezione, ordinò che fosse allargato un poco il buco che serviva da finestra; ma il suo ordine non fu mai eseguito.
Una capanna di frasche, divisa in due parti, serviva da infermeria. Tutto quanto il mobiliare consisteva in qualche branda e… nient'altro… L'approvvigionamento di medicine veniva fatto in misura men che insufficiente. Ordinazioni e ordinazioni andavano dai medici al comandante, e rimanevano a far la quarantena sul suo tavolino… Dopo settimane e settimane o non ricevevamo nulla, o ricevevamo poco di quel che avevamo ordinato, o ci venivano consegnati oggetti e medicine che non avevamo richiesto affatto. Quando iniziammo il viaggio nell'interno fu detto a noi altri dottori che in qualunque luogo nel quale saremmo rimasti, avremmo trovato un medico francese, e un grande ospedale riccamente provvisto di medicine, di istrumenti e di una completa dotazione moderna.
A Kandi eravi un ospedale per i negri relativamente assai bene arredato, ma non doveva essere occupato dai prigionieri malati. Occasionalmente potei vedere che vi era una grande
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scelta di ogni genere di medicine, ma tutte di secondaria importanza; quelle più importanti e indispensabili ve n'erano in quantità sufficiente appunto per il fabbisogno degli stessi Francesi. Il chinino ci fu dato qualche volta in prestito, ma in piccolissime quantità, e non dovevamo mancare di riconsegnarlo immediatamente appena arrivava un po' di chinino per noi; di modo che o per una ragione o per l'altra, il chinino per i prigionieri mancava sempre… Peggio ancora che pel chinino era per tutte le medicine necessarie contro la dissenteria e difetti cardiaci. Soltanto negli ultimi giorni della prigionia potei ricevere qualche piccola dose di uno specifico efficace contro la dissenteria (emetin). Contro la debolezza di cuore non si poté avere mai nessuna medicina. Le difficoltà per ottenere dall'ospedale dei negri una medicina per un male cardiaco costò la vita ad un povero malato affetto da febbri biliari emoglobinuriche, che avrebbe potuto essere facilmente salvato. Quando, un pomeriggio, si notarono i primi sintomi della debolezza cardiaca e le nostre riserve di medicine contro i difetti del cuore erano esaurite, pregai che mi fosse mandata la medicina necessaria dalla farmacia dell'ospedale per i negri. Il sergente francese che rappresentava il comandante del campo se n'era andato a zonzo e non era possibile trovarlo… Ritornò a sera inoltrata. Alle mie urgenti preghiere rispose di non poterci fare nulla perché non erano più ore d'ufficio e il funzionario del distretto era andato a far una passeggiata a cavallo. Ritornammo qualche ora più tardi, quando presumemmo che il funzionario fosse di ritorno. E lo era infatti, ma ci fece rispondere che nessuno avrebbe potuto pretendere da lui, a quell'ora, che si recasse all'ospedale e cercasse la medicina richiesta. Soltanto il
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giorno seguente, verso mezzogiorno, potei avere una piccola quantità della medicina che il medico francese aveva ordinato allo stesso funzionario per suo uso personale e che questi aveva invano cercato fra le medicine dell'ospedale. Ma era troppo tardi! …Durante le ore dell'ambulatorio, due volte al giorno e qualche volta fuori d'orario in casi d'urgenza, la chiave dell'armadio che conteneva le medicine si doveva andarla a prendere dal tenente Gratiani o dal suo supplente. Ma questo fu, spesse volte, impossibile, perché il sergente Vergnaud che suppliva il tenente Gratiani, troppe volte si trovava al letto ubriaco fradicio, e non voleva o non poteva essere svegliato. Un'altra volta rimase tutto il pomeriggio presso il suo amico nell'ufficio del distretto senza che fosse possibile di prendere dal famoso armadio una medicina di cui eravi grandissima urgenza. Per quanto nell'ospedale dei negri vi fosse un astuccio pieno di ferri chirurgici, non ci furono consegnati altri strumenti che un vecchio paio di forbici, un bisturì irrugginito e delle pinzette inservibili. Il funzionario del distretto non volle mai consegnare a nessuno l'astuccio completo di ferri chirurgici che se ne rimaneva non adoperato, e nemmeno parti di esso, anche dietro garanzia personale che i singoli ferri gli sarebbero stati immediatamente restituiti ed in ottimo stato… Finalmente mi riuscì di farmi spedire il mio astuccio di ferri chirurgici e un microscopio che trovavasi ancora alla costa. Ci vollero però due mesi prima che giungesse dalla costa alla stazione capolinea. Colà rimase un altro mese colla scusa che negli autocarri, i quali due volte la settimana percorrevano il tratto dalla stazione capolinea al nostro campo, – circa 25°chilometri, – non vi
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era posto. È mai credibile questo? Non potei, comunque, servirmi del microscopio perché mi mancavano tutti gli accessori necessari alle osservazioni.
Lo stato di salute dei prigionieri di guerra era compassionevole. Se anche molti riuscivano a rimettersi, in certo qual modo, dalle atroci fatiche causate dalla marcia, le condizioni dell'accampamento sopra descritte, schernenti qualsiasi igiene, determinavano pronte ricadute e nuove malattie, specialmente quella della malaria, della dissenteria e gravi catarri intestinali. Data la mancanza ininterrotta di medicine di qualsiasi genere e di specifici contro i morbi dei tropici, specialmente le ricadute di febbri malariche erano all'ordine del giorno, mentre la dissenteria e i catarri intestinali prendevano un decorso cronico in un numero di casi veramente terrificante. Anche i catarri intestinali più acuti e purtroppo numerosi, venivano tirati per le lunghe e non di rado causavano persino la morte. I reumatismi ed altri stati morbosi erano una cosa di tutti i giorni.
…Accompagnato da due compagni di prigionia affetti da malattia cronica, destinati all'ospedale di Cotonou, il 15 marzo 1915 fui condotto in autocarro a Savé.
…II tragitto da Savé ad Abomé fu da noi coperto il 15 marzo 1915 in una vettura ferroviaria destinata agli indigeni. Alla stazione Abomé-Bohikou fui fatto scendere.
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3. Abomé.

Il campo di concentrazione dei prigionieri di guerra si trovava nella parte centrale di un grande cascinale, altra volta sede dei capi tribù di Dahomé. Da due parti era circondato da una muraglia massiccia di argilla rossa scura, alta 6-8 metri, mentre dalle altre due parti la muraglia era un poco più bassa… Il tutto faceva un'impressione paurosa. Si aveva l'impressione di essere tagliati per sempre dal mondo.
Quale spettacolo atroce, poi, l'aspetto doloroso e le facce scarne dai patimenti dei nostri compatriotti! Stanchi dalle continue torture, scarni, consunti, i visi terrei e d'un pallore mortale, gli occhi profondamente incavati e velati di morte; muti, curvi, vacillanti passavano timorosi nel cortile come scheletri viventi. Altri stavano in piedi sull'ingresso delle loro capanne girando furtivi gli sguardi verso i nuovi arrivati, pronti a ritirarsi nel fondo della capanna appena un francese si avvicinava. E questi erano i cosiddetti sani, in istato ancora di lavorare.
Ma quale indescrivibile miseria si doveva presentare ai miei occhi il giorno dopo, allorché entrai per la prima volta nel cosiddetto "ospedale" per prestarvi servizio!
Essendo straordinariamente grande il numero dei malati degenti ivi e nell'infermeria, e di quelli che all'infermeria venivano nelle ore dei consulti, non avevo mai un minuto di requie e doveva passare tutta la mia giornata in mezzo ai do-
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lori e ai lamenti. Quante cose atroci e miserande appresi là dentro!…
Quando fu scelta Abomé come accampamento per i prigionieri, il cascinale da lungo tempo abbandonato si trovava in uno stato di completo abbandono. Il cascinale e tutti i dintorni dell'accampamento erano stati invasi da gramigne e da malerbe altissime; nei punti più bassi e paludosi, da canneggiole ed alte erbe palustri. Le capanne erano sfondate, invase dalla vegetazione tropicale, e le pareti di mota, spolverizzate dalle piogge e dalle arsure, non presentavano più che miserande rovine… L'aiutante-capo Venère, armato del suo indivisibile scudiscio, lasciava andare sferzate a destra e a sinistra sul viso e nel corpo dei miseri prigionieri, prendendo pretesto da qualsiasi piccolezza, spesso per puro istinto sanguinario e brutale malvagità. Per qualsiasi infrazione, anche immaginaria, ordinava i "pollici" e faceva condurre i prigionieri, cosi tormentati, in un carcere degli indigeni dove venivano tenuti a pane ed acqua e sottoposti a nuovi maltrattamenti. Gli altri due francesi, il sergente della riserva Castelli, – prima della guerra capo dell'agricoltura a Dahomé, figlio di un colonnello, – e il caporale Gianzelli, seguivano l'esempio e i comandi del feroce Venère. Anche tutti i soldati negri imitavano i francesi. I quali, al pari dei soldati negri, percuotevano selvaggiamente i prigionieri senza alcun motivo, spesso per capriccio, più spesso ancora per ubriachezza; li colpivano con un nerbo di bue, che tenevano in mano dalla parte più sottile, sul volto e nel capo con tutta quanta la loro forza. Nei momen-
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ti di maggiore sete di sangue e di rabbia bestiale eran grandinate di pugni, di scudisciate, di calci e di taccate in tutto il corpo. Sovente gli energumeni sceglievano un membro qualsiasi e lo "elaboravano" a furia di colpi, per ben "maturarlo", come dicevano essi. I soldati negri non facevano economia nella distribuzione dei colpi col calcio del fucile. I maltrattamenti e le sevizie erano accompagnati da torrenti dei più sudici vituperi.
I prigionieri inviati alle carceri venivano maltrattati dai soldati già durante il tragitto; giunti colà venivano sottoposti alle suddette bestiali torture dai sottufficiali francesi che esercitavano impunemente qualsiasi arbitrio. Quando le forze fisiche di questi sottufficiali francesi non bastavano a "maturare" i prigionieri, si facevano aiutare dai soldati negri che col calcio del fucile o con nodosi randelli tribbiavano colpi come in terra su quei corpi derelitti. Anche quando i torturati stramazzavano dagli atroci dolori e si rotolavano sul terreno implorando pietà o gettando quelle grida squarciate che entrano nell'anima e fanno agghiacciare il sangue, i carnefici non si arrestavano ma continuavano ancor più inferociti il loro trattamento da iene. Questo genere di assassinio di inermi innocenti era comunissimo ad Abomé.
Questo riferirono non soltanto gli stessi seviziati, ma molti altri testimoni che poterono osservare i maltrattamenti dal cortile o dalle finestre dell'ospedale. Quando i francesi si infuriavano contro un prigioniero, facevano roteare i loro nerbi di bue e picchiavano alla cieca il presunto colpevole non
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solo, ma anche tutti gli altri che si trovavano in arresto… Avvenne sovente che insieme ai prigionieri tedeschi venissero imprigionati anche soldati di colore; e, sovente, anche le donne negre di quei soldati. I "pollici" furono avvitati spesso tanto stretti sulle falangi delle dita che queste enfiavano, annerivano, quindi scoppiavano facendo uscire sangue coagulato e causando ai torturati inenarrabili spasimi. E non eran queste soltanto le torture riservate a quei martiri; ché uno speciale inasprimento del martirio consisteva in questo: Venère, la bestia, applicava i "pollici"a due prigionieri condannati agli arresti, quindi metteva l'uno di fronte all'altro. I "pollici" dei due tormentati venivano riuniti da una catena ed a questa appeso un,ceppo di legna. Gli ordigni venivano così a schiacciare non solo le falangi delle dita, ma, tirati in giù dal ceppo sospeso in aria, operavano un continuo e doloroso strappamento. Perché il peso non toccasse terra, i tormentati dovevano tenere le braccia tese. Quando l'esaurimento o l'insopportabile dolore induceva i poveretti ad abbassare le braccia, Venère, il bruto, era pronto là – solo aiutato dai suoi soldati negri – e percoteva col suo scudiscio le braccia degli infelici finché queste non risalivano e non si stendevano in posizione orizzontale. Il supplizio cessava solo quando i torturati, completamente vinti dagli spasimi, piombavano a terra privi di sensi…
Mi ricordo benissimo del seguente fatto riferitomi da compagni di prigionia, e che voglio qui narrare. Poche settimane prima che vi arrivassi io, erano giunti ad Abomé alcuni nuovi prigionieri di guerra mandativi dal Kamerun…, fra i quali il prigioniero P… All'ingresso dell'accam-
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pamento, Venère li fece circondare dai soldati, minacciandoli colla sua pistola a caricamento multiplo li fece quindi inginocchiare; e, gridando agli astanti: "Guardate, soldati, come noi trattiamo i Tedeschi! Adesso essi sono i nostri schiavi!" cominció, sempre minacciando colla pistola che teneva nella mano sinistra, a menar colpi col suo scudiscio sulle teste degli inginocchiati. Perché i colpi acconsentissero meglio, il bruto teneva in mano lo scudiscio dalla parte sottile e picchiava dalla parte del grosso.
Più volte avvenne che i prigionieri fossero buttati in carcere e quivi percossi a morte per la semplice ragione che essi si erano dati malati. La sottrazione di qualsiasi nutrimento per più giorni era generalmente accompagnato dalla punizione dell'arresto.
Tutti i prigionieri avevano da soffrire orribilmente per i lavori forzati e gravi sotto il clima equatoriale accasciante; molto più che essi, più a meno, soffrivano tutti di malattie tropicali o di strascichi lasciati dai morbi stessi. Il loro deplorevole stato di salute non destava mai la benché minima pietà nel medico francese dell'accampamento. Gravissimo, fu il lavoro dei primi mesi, allorché si dovette liberare tutto quanto l'accampamento e il terreno circostante dai grandi viluppi di erbacce, e questo colle sole mani senza l'aiuto di nessun arnese, zappa a falcino che fosse.
Che cosa voglia dire per malati e spossati estirpare colle mani gramigne e piante palustri sotto il torrido clima dei tropici, lo si può comprendere meglio in via d'esempio,
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se narrò [sic] che persino gli indigeni più sani e più robusti consideravano come una delle fatiche più dure estirpare le piante palustri nel clima loro abituale, non colle sole mani, come dovevano fare i prigionieri tedeschi, ma servendosi dei loro arnesi comuni per tale bisogna, nonché di zappe, rastrelli, falcini, vanghe, seghe ed altri istrumenti. Oltre a ciò, per indurre gli stessi indigeni a questo lavoro di estirpazione necessaria per distruggere le terribili mosche tsè-tsè che inoculano la tripanomiasi o malattia del sonno e che imperversano in quei luoghi, i medici nell'Africa orientale tedesca dovettero inventare, costruire e distribuire, mezzi e strumenti acconci per distruggere e preservare gli stessi indigeni dalle punture del terribile insetto.
La mattina dalle 6 alle 10 e il pomeriggio dalle 2 alle 5 i prigionieri tedeschi, vigilati dai soldati negri armati di fucili e di randelli, dovevano estirpare le malerbe faticando in modo indicibile sotto i dardi del sole cocente. Guai a quel prigioniero che muoveva l'occhio dal suo lavoro, e rivolgeva alla sfuggita una parola al compagno, o si ergeva sulla persona, rotto dalla posizione costantemente curva, per riposarsi un istante. Un agile soldato negro gli piombava subito addosso; e, urlando come un dannato, lo tempestava di pugni, di calci e di legnate nella schiena e nel collo. Chi perdeva i sensi durante il lavoro, veniva sferzato a sangue finché non ritornava in se stesso, e il feroce trattamento continuava sinché non aveva ripreso il lavoro. Nessuno doveva correre in aiuto di un compagno maltrattato e svenuto, se non voleva subire la stesse sorte. Acqua per saziare la tormentosa sete du-
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rante il lavoro non c'era, o, se c'era, era proibito di andare a beverla per non interrompere il lavoro. Nel febbraio 1915, essendo venuto un cosiddetto "generale" a visitare l'accampamento, i prigionieri più anziani presentarono le loro proteste, le quali furono tutte respinte come fece più tardi anche il comandante di Dahomé, un certo Durief. Quando il generale se ne fu andato, Venère condannò alla prigione tutti quelli che avevano ardito protestare… Per quanto le supreme autorità coloniali dell'Africa occidentale francese siano venute certamente a conoscenza dell'inaudito stato di cose di Abomé, pure Venère vi rimase, padrone dispotico, come per lo passato; e, senza che lo raggiungesse la benché minima punizione per le sue atrocità, continuò a sfogare il suo istinto sanguinario sui derelitti prigionieri… Nel luglio 1915 rividi questa iena a bordo del vapore "Asie", fregiata coi galloni d'ufficiale. Il sangue che aveva fatto spicciare dalle membra di tanti prigionieri a forza di colpi di scudiscio, gli aveva fruttato la promozione…Venni a sapere ancora che Venère, prima di essere mandato in mezzo a noi, era stato 10 anni nella Nuova Caledonia in mezzo ai delinquenti deportati, in qualità di sorvegliante dei galeotti.
Il vitto fu, nei primissimi giorni, alquanto sopportabile; ma divenne ben presto insufficiente quando furono iniziate le crudeltà. Per molto tempo non vedemmo assolutamente pane… I prigionieri dovettero soffrire la fame, e nonostante dovessero sottoporsi a gravi lavori colla loro
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salute vacillante e sotto un clima mortale. Per calmare gli stimoli dello stomaco andavano fino a ricercare nelle immondizie qualcosa da mettere fra i denti. Quando finalmente venne il pane, molti prigionieri si ebbero, non si è mai saputo per quale ragione, la punizione degli arresti con sottrazione di cibo. Persino i malati e gli inabili si lavoro furono privati del pane ardentemente desiderato, e questo colla cinica scusa che essi dovevano vivere in dieta…
Il dottor Longharé tenne verso i malati un contegno privo di qualsiasi riguardo e bene spesso brutale. A qualsiasi osservazione rispondeva con ingiurie e adoperava un linguaggio degno da lupanare. Quando, in uno dei primi giorni della sua attività, gli fu portato un prigioniero svenuto durante il lavoro, il medico non si curò di lui per un certo tempo, come se nulla fosse; ma continuò la sua lepida conversazione con alcuni altri francesi che stavano trincando attorno ad un tavolino. Quando un prigioniero, che aveva portato il povero svenuto, richiamò l'attenzione del medico sul disgraziato bisognoso di cura immediata, il dottore Longharé rispose irato: "Anche nel campo di battaglia i feriti rimangono lungo tempo senza aiuto medico" e si mescè quindi un altro bicchiere di vino per dimostrare che non aveva fretta.
Moltissimi malati gravi furono mandati da lui al lavoro. Essi dovevano reputarsi allora fortunati di non esser puniti e maltrattati da Venère per simulata malattia, cosa che succedeva quasi ad ogni malato. Affetti da malaria che nel momento della visita venivano trovati con piccola febbre, veni-
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vano mandati immantinente al lavoro; ed anche i disgraziati ricoverati nell'ospedale militare, perché affetti da febbri acute di malaria, dovevano, appena la febbre diminuiva, recarsi subito al lavoro, nonostante il loro stato compassionevole.
Ogni malato veniva sottoposto nei primi giorni della sua degenza nell'ospedale a "régime spécial", cioè a dire: dapprima non gli veniva dato nulla e dopo qualche giorno ben poco da mangiare. E si pensi che appunto nei casi di febbri malariche, astrazion fatta delle ore in cui più fieri sono gli attacchi di febbre, il bisogno di nutrizione aumenta grandemente a causa della grande e continua emolisi. Nell'ospedale e nell'infermeria era escluso l'uso del pane, non per riguardo ai malati, ma per risparmio. La cura detta "della fame" inaugurata dal dottor Longharé, cacciò dell'ospedale e dall'infermiera molti malati che preferirono lavorare per non crepare d'inedia. Malati cronici venivano considerati sempre come simulatori, specialmente gli affetti da anemia tropica e da debolezza del cuore. Questi malati venivan chiamati di preferenza a compiere lavori estremamente gravi.
Longharé visitava i degenti, non per determinare il male e prescrivere le cure necessarie, ma per trovar la gretola di cacciarli fuori dell'ospedale. Il trattamento dei degenti veniva fatto da un inserviente negro senza nessuna sorveglianza da parte del medico. Persino le iniezioni intramuscolari col chinino, le quali richiedono una certa cognizione di causa, specialmente riguardo all'asepsi, venivano fatto sempre del negro. Egli
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imponeva agli affetti da febbri malariche di giacer proni sui loro letti, quindi, armato d'una siringa, operava iniezioni col chinino nei muscoli glutei ai degenti, uno dopo l'altro; senza disinfettare, dopo le iniezioni, le cannule della siringa; dimodoché erano rese possibili trasmissioni delle più varie malattie. Se la cannula cadeva per terra, cosa che avveniva assai spesso, il negro la nettava coi diti o se la fregava all'abito sporco e continuava a far le sue iniezioni!!! È noto che le iniezioni intramuscolari col chinino producono già di per se stesse infiammazioni dolorosissime con indurimento della parte per un lungo spazio di tempo; la mancanza poi di qualsiasi asepsi nei malati, trattati dai negri ignoranti, cagionava quasi sempre infiammazioni del tessuto cellulare, e flemmoni di carattere infettivo. Malgrado questi inconvenienti il dottor Longharé non ordinava mai il chinino per uso interno, ma esclusivamente quelle famigerate e micidiali iniezioni. La conseguenza fu questa: che i malati preferivano farsi consumare ed uccidere dalle febbri che darsi malati.
Il dottor Longharé faceva un uso ampissimo del termocauterio, e se ne serviva più che altro per impaurire tutti i malati di dolori reumatici e nevralgici, e per indurli a tacere e non presentarsi all'ambulatorio…
In qualsiasi prigioniero affetto da reumatismi o da dolori nevralgici egli scorgeva un simulatore. A causa dei tormenti che i malati dovevano, in un modo od in un altro, soffrire, ribattezzarono l'ospedale chiamandolo "L'inferno".
Gli affetti da febbri malariche venivano mandati
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subito al lavoro non appena la temperatura si abbassava; soltanto i più gravi venivano messi "in riposo", cioè a dire mandati nelle loro capannacce e tenuti a corto di cibo e di bevande. A questi malati "in riposo" non era però concessa nemmeno la pace, perché dovevano rispondere continuamente agli appelli, compiere senza eccezione lavori leggeri, e, non di rado, anche lavori più gravi quando ve ne era urgenza. Se, per esempio, arrivavano le provviste, èccoti Venère col suo flagello, pronto a cacciare tutti al lavoro, incitando a scudisciate i più lenti. E tutti dovevano curare le magre spalle e caricarsi di pesantissimi sacchi e trasportarli colle vacillanti gambe nei depositi, sia che la febbre li torturasse, sia che i loro cuori indeboliti non reggessero al troppo grande sforzo.
La dolorosa impressione che produssero in me quei miserevoli spettri d'uomini che pure appartenevano alla categoria dei cosiddetti prigionieri sani, accrebbe ancora quando vidi i soldati negri ben pasciuti, ben vestiti, arditi, anzi sfacciati nell'aspetto, punzecchiare, ingiuriare e comandare a bacchetta i poveri prigionieri tedeschi. Ogni negro era munito, oltreché delle solite armi, anche di un randello.
Gli uomini di truppa erano allogati in molte capanne di una certa grandezza, nella quale erano collocati, l'uno a ridosso degli altri, i bancacci. Su ogni bancaccio coperto di stoia dovevano dormire due uomini. Quando un compagno di bancaccio passava all'ospedale o, più spesso, alla prigione, si portava dietro la stoia e l'altro doveva dormire allora sulla nuda tavola. Ogni prigioniero disponeva di due coperte di lana troppo leggere e per la maggior parte lise e strapanate…
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Non furono fornite mai scarpe. In luogo di queste ogni prigioniero che ne aveva eccessivo bisogno riceveva un paio di pantofole confezionate con pelle non conciata, che portava ancora i peli; pelle proveniente dalle bestie vaccine macellate per il vitto dei prigionieri. Quando pioveva, queste pantofole si ammorbidivano, puzzavano e facevano passar l'acqua… Una sola volta fu data una camicia; nessuna meraviglia dunque se i prigionieri avevano, per tutta biancheria, dei miserevoli brandelli.
In nessuna capanna eravi focolare ed era severamente proibito di accendere il fuoco all'aperto. Chi, dopo gli acquazzoni frequenti e insistenti, si sentiva bagnato fino alla pelle, doveva spogliarsi e ravvolgersi nelle coperte per riscaldarsi un po'. In questo caso si buscava, però, sempre una punizione, perché era proibito sdraiarsi nel bancaccio durante il giorno. Anche dopo gli acquazzoni l'aria rimaneva così pregna di umidità che soltanto il calore del corpo riusciva a prosciugare gli abiti.
Gli stessi Francesi debbono avere riconosciuto finalmente che un corpo costretto a sobbarcarsi ininterrottamente a grevi lavori non può rimanere in uno stato di fame continua… Alla fine di febbraio il tenente Bernard, che si addossò le funzioni di comandante del campo, vi introdusse alcuni miglioramenti. Fu data allora carne due volte al giorno… Generalmente la carne era cotta insieme al jams… Per il condimento dei cibi fu fornito da principio soltanto il sale; più tardi ancora pepe e cipolle.
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Il pane indigeno, distribuito dal principio di gennaio, fu tolto da Venère a tutti gli arrestati ed ai malati non obbligati al lavoro. Per qualsiasi punizione, anche leggera, vi era sottrazione del pane.
Il tenente Bernard fece distribuire, ogni mattina a colazione, del brodo; ma essendo questo della sera avanti, era generalmente inforzato. Qualche volta ci diedero caffè la mattina e la sera…
Donne indigene ci portavano ogni giorno l'acqua per bere e per lavarci, acqua che, da un esame fatto, risultò essere di fiume… Il medico francese ritenne tuttavia che non vi fosse necessità di filtri. Egli era d'opinione che i numerosissimi casi di dissenteria tra i prigionieri non fossero altro che catarri del crasso, di nessuna importanza; che i bacilli della dissenteria non si riscontrassero che raramente a Dahomé, e fossero esclusi quelli della terribile dissenteria amebica. Quando egli ebbe messo a mia disposizione tutto il necessario per procedere ad esami microscopici potei fargli subito vedere come i due primi pazienti presi a caso nell'accampamento fossero affetti precisamente da dissenteria amebica. Ciò non pertanto nessuno pensò mai a distribuire una migliore acqua da bere.
In una rimessa rettangolare accanto all'ingresso del campo era stata scavata una fossa larga un metro e lunga un metro e mezzo, attraverso la quale erano state collocate alcune tavole. Nella parte davanti rivolta verso il cortile e nelle due pareti laterali erano praticate grandi aperture d'acces-
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so, di modo che dal cortile si poteva vedere benissimo quello che avveniva dentro questa rimessa che serviva ad uso di latrina. Qui dentro negri e bianchi alla rinfusa, nuda la parte inferiore del corpo, sfogavano i loro bisogni corporali alla presenza di tutti quelli che passavano al cortile: francesi, prigionieri, donne e ragazze indigene che trasportavano acqua o commestibili. Quando una di queste fosse era piena di escrementi, i prigionieri dovevano scavarne un'altra accanto… Le fosse brulicavano di schifosi vermi e di nuvoli di mosche che dalla rimessa passavano nell'accampamento, nelle cucine, nei dormitori, ecc. Nell'ospedale c'era, è vero, un secchio destinato esclusivamente per gli escrementi degli ammalati di dissenteria acuta, ma questi secchi venivano vuotati nella fossa comune scoperta, il che frustrava qualsiasi precauzione… Nel maggio venne costruita finalmente una nuova latrina secondo il sistema tedesco dei suffumici, il quale libera l'ambiente completamente dalle mosche.
Le zanzare delle febbri malariche e gialle, formavano una continua tribolazione nelle capanne e specialmente nell'ospedale. Mancava qualsiasi zanzariere. Soltanto verso la fine dell'aprile 1915 ne furono mandati qualcheduno quando era già cominciata l'epoca delle piogge… I lavori consistevano, astrazion fatta da quelli nella cucina e nell'officina, nella fabbricazione dei mattoni, nella costruzione di piccole case, nella apertura e nella manutenzione delle strade. Uno dei più duri lavori era quello dell'estrazione delle pietre per la massicciata delle strade e del laterizio per la fabbrica dei mattoni; laterizio che nell'epoca dell'arsura diveniva duro
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come creta cotta.
Venère aveva preferito chiamare a questi lavori specialmente i prigionieri di condizione e d'istruzione più elevata, specialmente i dottori, gli architetti e gli ingegneri. Il prigioniero T… soffriva di anemia cronica e di debolezza del cuore all'ultimo stadio cagionata dal clima tropicale. Tuttavia il dottor Longharé insisteva nel dichiararlo sano ed idoneo, al lavoro, malgrado i segni troppo evidenti delle due malattie. A me ebbe il coraggio di dire che il prigioniero T… era un esimio simulatore che voleva risparmiarsi il lavoro.
Nel mercato che aveva luogo nel cortile davanti, le donne dovevano mettere in fila i loro canestri. Soltanto quando si erano disposte in ordine, i prigionieri ricevevano il permesso di avvicinarsi ad esse per contrattare i singoli acquisti. Un giorno, circa una settimana dopo il mio arrivo, la seconda fila dei prigionieri spinse un poco la prima fila verso i canestri, prima ancora che fosse stata dichiarato aperto il mercato. L'appuntato Gianzelli, a cui era affidata la sorveglianza, balzò avanti come una furia verso la prima fila dei prigionieri innocenti, e cominciò a grandinare scudisciate a destra ed a sinistra intimando loro di retrocedere. In questa sua sfuriata si udirono innumerevoli i colpi del flagello sulle spalle, sulle teste e sulle braccia di quei poveri soldati…
Un altro fattaccio del genere avvenne una settimana più tardi. Gli accampamenti di Kandi e di Gaya dovevano essere soppressi gradatamente, mediante invii settimanali di quei
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prigionieri in altri luoghi. Dapprima furono condotti via i malati e ci dissero che li trasportavano verso la costa; ma in verità giunti alla stazione ferroviaria Abomé-Bohikou furono fatti scender dal treno. Dopoché i malati del primo trasporto, circa 8, erano stati costretti a scaricare le valigie dal treno, dovettero anche caricarle in un carrettone e tirare questo fino ad Abomé sotto una temperatura opprimente ai raggi del sole ardente di mezzogiorno. I poveretti cercarono di fare capire al capoconvoglio, un sottufficiale negro famigerato per le sue crudeltà, che essi non avrebbero potuto resistere a quella fatica, perché malati gravi. Implorarono che si chiamassero operai negri a prestare man forte e dissero che li avrebbero perfino pagati di propria tasca. Il sottufficiale negro non accettò la proposta ed ordinò imperiosamente ai malati di continuare a tirare il pesante carriaggio. Quando i miseri si arrestavano per riprendere fiato, o procedevano più lentamente nelle salite, il negro li percoteva con uno scudiscio accompagnando i colpi con ingiurie e bestemmie. Orribilmente percosso fu il povero N…, di stanza a Lame, che soffriva di dissenteria cronica. Egli riportò alquante sugillazioni nelle spalle e nel collo che enfiarono orribilmente, si iniettarono di sangue e ben presto annerirono. Gli altri malati non potei vederli. Feci rapporto dell'accaduto presso il comandante del campo, tenente Bernard, e gli mostrai i segni delle patite sevizie. Bernard dichiarò allora che i maltrattamenti dei prigionieri erano proibiti e che i negri sarebbero stati puniti; ma, in verità, non fu fatto nulla di nulla.
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Maltrattamenti di questo o di altri generi si ripeterono varie volte in ogni trasporto settimanale dei prigionieri del Togo… Il seviziatore era ora un soldato negro, ora un soldato francese. Così, per esempio, il prigioniero B…, proveniente dal Togo, sofferente da qualche mese per una tumefazione ribelle in un occhio, e che, giunto all'accampamento si diede subito malato, fu da Venère, per tutta risposta, ricoperto di insulti, percosso sulla faccia e nel capo con un nerbo di bue e buttato in prigione, previa applicazione del famoso ordigno detto i "pollici ". Durante i 15 giorni d'arresto doveva presentarsi ogni giorno all'ospedale durante l'ora dei consulti, ma un giorno si sentì tanto male che dovette rimanere nell'ospedale… Un altro prigioniero proveniente da Kandi, un certo P…, arrivato un po' prima degli altri dalla stazione di Bohikou accompagnato da un soldato negro, dovette starsene fino alla sera all'ingresso dell'accampamento, per quanto avesse il viso pieno di grumi di sangue; e quando giunse il trasporto successivo fu mandato cogli altri in prigione senza che gli fosse passata alcuna visita medica…
Dal giorno che avevo protestato contro le sevizie inflitte dal sottufficiale negro al prigioniero proveniente da Kandi erano passate un paio di settimane e aspettavo che quegli ricevesse la meritata punizione. Ecco invece cosa accadde: l'appuntato Gianzelli fece mettere in prigione un compatriotta per non ricordo più quali futili motivi. Seguì quindi l'arrestato nella prigione dell'accampamento, accompagnato da un soldato negro. Entrati dentro la prigione i due aguzzini si slanciarono come energumeni addosso al malcapitato, ed a forza di colpi di
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scudiscio, di randellate, pugni e calci accompagnati da insulti e bestemmie, lo ridussero ben presto in uno stato da fare pietà. Io stesso, dalla finestra dell'ospedale, udii le tragiche grida del martoriato e le contumelie e i colpi di quelle due belve; potei scorgere anche il Gianzelli nella prigione menare botte da orbi sul disgraziato, e lo vidi uscire quindi agitato e colla faccia rossa come un gallinaccio. Altri prigionieri dell'ospedale avevano potuto, da una finestra meglio situata, osservare tutte le fasi della scena selvaggia. Non potendo trovare in quel momento il comandante dal campo, gli scrissi una denuncia, la consegnai all'interprete e lo pregai di fargliela avere per il tramite dell'aiutante Venère. Questi venne, infatti, più tardi nella mia abitazione, parlò a lungo in preda ad ira, promise però che avrebbe inoltrata la denuncia. Nulla potei mai più sapere al riguardo. Per un tempo lunghissimo non mi fu concesso di vedere il tenente Bernard; e quando, più tardi, doveva parlare con me di cose riguardanti l'ospedale lo faceva tenendo un contegno repellente, mantenendosi freddo e contando quasi le sue parole. Avendo assolutamente bisogno del suo appoggio nei riguardi dei miei malati, rinunciai di ritornare sulle sevizie patite da alcuni prigionieri, e questo perché capivo bene che qualsiasi protesta sarebbe stata vana. Da espressioni dei Francesi, riferitemi dall'interprete, avevo capito che, essendo io stato mandato ad Abomé quale aiuto del medico francese, le mie proteste non avrebbero fruttato nulla, ma provocato, semmai, i dispetti dei sottufficiali francesi.
Trascorsa appena una settimana dai fatti qui sopra
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descritti, il sergente Castelli fece mettere in prigione un giovane marinaio della linea di navigazione Woermann dicendo che gli aveva fatto atti di scherno. Il sergente Castelli si recò dopo qualche minuto nella prigione in cui era rinchiuso il marinaio e lo massacrò in modo veramente bestiale a colpi di ranzagnolo, di scudiscio, a pugni, a calci nel corpo e nel viso, e minacciando quindi di strozzarlo. Alle disperate grida dell'infelice accorsi fino alla porta della mia dimora e fui in tempo a vedere il Castelli uscire dalla prigione, montarsene in bicicletta ed allontanarsi dal campo, per fare, credo, rapporto al tenente Bernard e prevenire il rapporto che egli, a ragione, presupponeva che avrei fatto io.
Anche questo caso di maltrattamento poté essere osservato dall'ospedale. Il giorno dopo il sergente Castelli si credette in dovere di dichiararmi, non interrogato, che le leggi marziali comminano pene severe ai prigionieri di guerra tedeschi che osano schernire un soldato francese. Aggiunse in aria spavalda che, terminata la guerra, si sarebbe messo a disposizione di chiunque avesse creduto aver con lui dei conti da saldare.
Fino all'ultimo giorno della mia permanenza ad Abomé giunse il comandante di Dahomé, il maggiore Durief, per visitare quel campo. All'appello presentarono proteste soltanto alcuni prigionieri provenienti dal Togo. Gli altri provenienti dal Kamerun che meglio conoscevano l'andazzo e avevano perduto qualsiasi speranza tralasciarono di protestare, considerato che era assolutamente inutile. Dal mio ospedale potei osservare il decorso
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dell'appello stesso e udire domande e risposte. Il resto mi fu raccontato dai prigionieri.
Ecco quali furono le risposte del comandante Durief: All'osservazione dei prigionieri che essi non potevano sopportare i lavori forzati in quel clima torrido, rispose: "Già! Qui in Africa è caldo e in Europa fa freddo".
Alla protesta di non volere essere sorvegliati da soldati negri replico: "Già! In Europa i soldati sono bianchi e qui in Africa sono neri".
Alla protesta riguardante i maltrattamenti subiti dai soldati francesi e di colore, osservò: "Fate quel che vi comandano e nessuno vi batterà."
Anche il "generale" di Dakar aveva, press'a poco allo stesso modo cinico, respinto le proteste dei prigionieri. Appena il comandante ebbe voltato i tacchi all'accampamento, Venère ordinò che i 14 prigionieri che avean protestato fossero schiaffati in prigione. Da quel giorno tutti i prigionieri furono chiamati a prestare l'opera loro in lavori gravissimi.
A quale grado arrivasse il cinismo di Venère, si può rilevare dalla circostanza che egli non si peritava di osservare che, se i prigionieri da lui maltrattati si fossero trovati un giorno in libertà, si fossero presi la briga di fare dei passi per rendersi giustizia delle sevizie patite, avrebbero perso il loro tempo, imperocché Venère e i suoi tirapiedi non avevano da temere conseguenza alcuna…
Verso la fine del maggio 1915 questo cinico, in un
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appello domenicale tenne ai prigionieri una specie di predicozzo, portando ai sette cieli il gran bel trattamento da lui usato ai "suoi" prigionieri, osservando che il cibo era abbondante, la disciplina piena di indulgenze, il lavoro un vero divertimento. Aggiunse che i prigionieri di guerra avrebbero dovuto scrivere ben presto alle loro famiglie essere sotto ogni rapporto contentoni, e questo perché in Germania si fosse soddisfatti e si trattassero bene anche colà i prigionieri francesi. Terminò dicendo che l'amministrazione del campo avrebbe fornito gratuitamente la carta per chi voleva scrivere una "bella" lettera in quel tenore… Nessuno scrisse. Dopo una settimana la commedia fu ripetuta; questa volta con parole più ferme e più decise. Visto che i fogli di carta distribuiti gratuitamente seguitavano a rimanere vuoti, in un ulteriore appello fu comandato ad un certo numero di prigionieri di scrivere le "belle" lettere richieste sotto minaccia di gravi punizioni. I minacciati scrissero, allora, ma in modo che i francesi distrussero le lettere che avrebbero dovuto dire mirabilia della vita di prigioniero. Anch'io fui richiesto di scrivere una "bella" letterina in Germania; e fu proprio il tenente Bernard a farmi una tale proposta. Risposi di riconoscere i miglioramenti introdotti da lui nel campo, ma di non poter parlare di buon trattamento sinché i malati non fossero protetti e curati sotto ogni rapporto, finché si minacciavano e si compievano maltrattamenti, finché eranvi i lavori forzati sotto il clima tropicale. Aggiunsi che se egli avesse dato salde garanzie contro il ripetersi specialmente dei bestiali maltrattamenti, in breve lasso di tempo i prigionieri stessi, volontariamen-
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te, senza suggerimenti alcuni, avrebbero scritto da sé. Il tenente Bernard saltò allora di palo in frasca e parlò d'altre cose.
Nel giugno 1915 vi fu a Dahomé la serrata postale per tutti quanti i prigionieri.
Il medico governativo francese di Dahomé, capitano medico Longharé, sottopose al mio esame, appena fui arrivato al campo, un severissimo regolamento. Per suo ordine e sotto la sua ispezione avrei dovuto esercitare il servizio medico assolutamente nel senso da lui voluto: "Grande severità davanti ai prigionieri che si davano malati, caso contrario gravissime pene anche per me. Punizioni severissime erano comminate per qualsiasi spreco di medicamenti. Nessun prigioniero doveva essere accolto nell'ospedale se affetto da febbri malariche, a meno che la temperatura non fosse oltremodo alta. Mi era vietato infine di entrare nelle capanne ove alloggiavan i prigionieri… In una parola, il signore Longharé voleva che io agissi nello stesso modo ormai invalso nel campo dei prigionieri. Questo medico mi si rivelò ben presto per un uomo brutale. Nei primi tempi veniva quasi ogni giorno, guardava attentamente la tabella appese al letto di ogni febbricitante e non mancava di ripetere che era necessario non usare pietà alcuna verso i simulatori e gli sbuccioni… L'infermeria consisteva di due stanze, in una delle quali si esaminavano gli ammalati. In questa stanza trovavasi un piccolo armadietto con alcuni medicamenti. Il chinino vi era soltanto in soluzione per le iniezioni. Anche di altre medicine indispensabili non vi erano
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che qualche quantità microscopiche, insufficienti per qualsiasi cura… L'ospedale conteneva 20 letti, o più propriamente, bancacci. Mancavano gli zanzarieri per proteggersi la notte dagli insetti velenosi; specialmente dalle zanzare che volavano a milioni e ci tormentavano di giorno e di notte… Ospedale e infermeria si riempivano talvolta letteralmente di malati, bisognosi di cura e di riposo…
Visto che il numero dei bancacci era insufficiente, ne furono costruiti altri 10, ma anche i 30 non bastavano ed i malati dovevano dormire due a due su ogni bancaccio. Le malattie principali erano febbri malariche, dissenteria e febbri biliari emoglobinuriche. Come ho detto, il chinino non vi era che in forma liquida per le iniezioni. Protestai quindi e domandai anche chinino in pastiglie per uso interno, anche perché i poveri pazienti avevano tante cicatrici per le passate iniezioni da non poterne sopportare di più. Fu così che potei ricevere nei primi giorni 10 grammi di chinino; e, col tempo, un po' di più… Con questo chinino potei, per il momento, procedere alle cure più indispensabili, specialmente ai trattamenti consecutivi. Nonostante gli spasimi delle iniezioni si fecero avanti molti prigionieri rimasti senza trattamento consecutivo, affetti tutti da febbri malariche croniche, che si trascinavano dolenti nell'accampamento. Le soluzioni di chinino fornitemi avrebbero dovuto essere sterili, ma ne dubito fortemente, perché dopo l'iniezione si ebbero molte gravi infiammazioni e persino un caso di morte per subentrato tetano…
Certamente le soluzioni erano state fatte da un cosiddetto "negro sicuro ed esperto"; senza la vigilanza del medico
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Longharé, e dal negro anche sterilizzate alla sua usanza. Il caso di morte fu, naturalmente, doloroso al mio cuore, tuttavia ebbe anche il suo lato buono, perché da quel giorno il dottor Longharé mi fornì una quantità maggiore di chinino per uso interno per i malati dell'ospedale e della infermeria; e, più tardi, dimostratogli che il numero dei colpiti da febbri malariche aumentava e si imponeva una cura profilattica generale, mise a mia disposizione e dietro mie insistenti richieste una quantità di chinino sufficiente per tutti. Naturalmente il rimedio venne troppo tardi per molti malati, perché il trasandamento continuo di quei poveretti aveva preparato il terreno alle febbri dalle urine nere (decomposizione del sangue) che scoppiarono più tardi.
Innumerevoli furono i casi di dissenteria e di altre malattie intestinali gravi… Un successo si ebbe nell'abolizione della "cura della fame" avvenuta poco dopo il mio arrivo. Il dottor Longharé era d'opinione che i febbricitanti ed i degenti non avessero bisogno di cibo, o fosse sufficiente una piccolissima parte… Finalmente permise che i malati ricevessero il pane indispensabile. Col tempo fu persino possibile ottenere per i malati nell'ospedale e nell'infermeria una razione doppia di pane, di riso e di jams… Vero è che i cibi e le bevande, ordinato quotidianamente in cucina, non corrispondevano alla costituzione dei malati e non sempre erano nelle quantità accordate, perché l'ineffabile Venère, l'aiutante-capo, addetto all'amministrazione dei generi alimentari, sapeva speculare benissimo sulla ventura e risparmiava da tutte le parti per impinguarsi le tasche. Egli
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succhiava dappertutto, specialmente sul pane… Il pane defraudato agli arrestati ed ammalati sfuggiva al controllo di servizio. A corbe intiere Venère faceva portar via dal campo, in un ora notturna, il pane fraudato, per venderlo agli indigeni o per darlo, in parte, al suo cavallo…
Quando, al principio del maggio 1915, il numero dei malati dell'ospedale e dell'infermeria crebbe in modo straordinario per lo stato antigienico e i lavori forzati, il medico francese non venne più solo a visitare i malati, ma accompagnato da Venère, il quale gli andava additando alcuni prigionieri e dicendo che io facevo passare per malati individui che potevano invece lavorare. Il dottor Longharé domandò l'elenco dei degenti e mi scrisse poi una letteraccia minacciandomi le più severe punizioni per la mia eccessiva indulgenza. Contemporaneamente fu sottratto il pane a tutti i malati; alcuni dei quali, per non patire la fame, dissero di sentirsi in grado di uscire dall'infermeria o dall'ospedale e di ritornare al lavoro. Ma non andò guari che l'ospedale si riempì ben presto di malati.
Dopo qualche settimana potei ottenere nuovamente il permesso di riordinare ai riconvalescenti di febbri biliari emoglobinuriche, e poi anche agli altri ammalati, una mezza razione di pane…
L'ira di Venère allora divampò. Toccato nella borsa e nel suo senso di economia personale, moltiplicò la ferocia fino a farla divenire un incubo per i prigionieri e un vero pericolo per la loro vita.
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Il 22 aprile 1915, verso sera, furono mandati alcuni prigionieri davanti all'accampamento perché procedessero alla macellazione di un toro e al trasporto delle sue carni nelle cucine. Senonché il toro giaceva in terra già morto da un pezzo, tanto che mandava un fetore davvero insopportabile. Da questa carogna i prigionieri ebbero l'ordine di trarre e di utilizzare tutto quanto era possibile; dissero che il torello era morto per una cornata avuta da un'altra bestia, e che, quindi, la carne doveva essere buonissima. Cominciata la spellatura i prigionieri addetti alla bisogna dovettero sospendere l'ingrato lavoro ed osservarono che la vaccina puzzava talmente che era impossibile di utilizzare a scopo alimentare anche una piccolissima parte. Due sottufficiali francesi sopraggiunti si tapparono il naso e tirarono a diritto, ma Venère, aperto col coltello un taglio nei muscoli del collo meno imputriditi, ci ficcò dentro un dito, se lo portò al naso, osservò che la carne non puzzava affatto e che fosse trasportata a quarti nelle cucine. Ad un'ora di notte il lavoro era finito. La mattina dopo venni a conoscenza di tutto… Ebbi il sospetto che la bestia fosse morta in seguito a carbonchio. Questa malattia è comunissima negli armenti specialmente nei tropici ed in ispecial modo nel Togo e nel Dahomé. Venère non poteva ignorarlo…
Vietai ai prigionieri di mangiare quella carne, anzitutto perché era guasta dall'avanzata putrefazione, e poi perché, come ho detto, vi era il sospetto che la bestia fosse morta di carbonchio. I prigionieri mi ubbidirono e nessuno fortunatamente se ne cibò… La sera del giorno seguente il fetore era tale che la carne dovette essere sot-
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terrata con tutta urgenza. E per quella volta potemmo dire di averla scampata bella. Ma ecco che il 27 aprile, uno degli uomini che aveva proceduto alla spellatura e squartatura dell'animale, si presentò con un'infezione di carbonchio dovuto ad un piccolo taglio in una mano. Grande fu la mia apprensione; e, fatti venire innanzi a me tutti gli uomini che avevano partecipato alla bisogna, potei trovare che ben sei prigionieri erano infetti da pustole maligne incipienti per piccoli tagli o escoriazioni venuti in contatto colla carne dell'animale infetto. L'esame microscopico confermò la mia diagnosi. Il 30 aprile un secondo toro della mandra morì ucciso dallo stesso morbo. Il dottor Longharé mi diede il permesso di esaminare la milza del cadavere. Mentre attendevo che si scavasse la buca nella quale doveva essere sotterrato il cadavere di questo secondo toro, un altro giumento stramazzò a terra, proprio davanti ai nostri occhi, colpito da acuta debolezza del cuore. Praticai allora il salasso nell'orecchio del giumento ancora vivente, sottoposi il sangue estratto all'esame microscopico e vi trovai una grande quantità di bacilli tipici del carbonchio. Anche questo giumento morì in breve tempo ed anche la sua milza mostrò le tracce caratteristiche del carbonchio…
Il prigioniero G…, aveva una pustola maligna alla gola con forte enfiagione di tutta la parte e una temperatura 40. L'enfiagione stava già minacciando la laringe. Per due giorni il prigioniero G…, fu tra la vita e la morte. Due altri prigionieri colpiti da affezione carbonchiosa guarirono facilmente, due altri, invece, soffrirono molto, specialmente il R…, al quale apparivano sempre nuove pustole. Questo prigio-
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niero ed un altro furono trattati, per ricadute, dal tenente medico dottor Simon persino nel luglio, durante il trasporto dei prigionieri di guerra al Marocco. Venère ordinando che si spellasse e squartasse il cadavere del giumento morto da sé, e lo si portasse alle cucine per esser cotto, agì in modo veramente delittuoso. Infatti, per la sua lunghissima esperienza nei tropici e la sua profonda conoscenza del paese doveva ben sapere che dappertutto a Dahomé infuriava il carbonchio. Sapeva inoltre benissimo, come potemmo assodare più tardi, che poco prima che il toro carbonchioso cadesse morto, altre due vaccine della medesima mandra avevano subito la stessa sorte. Venère aveva tralasciato, infine, appunto in questo caso oltremodo sospettoso e richiedente doppia circospezione, di sottoporre la carne dell'animale al controllo del medico francese. Siccome lo squartamento del cadavere fu fatto ad ora tarda si dice che un negro, mandato dal medico francese con parte delle interiora della bestia morta perché le esaminasse, non lo trovasse a casa e che, dopo aver aspettato lungamente, annoiato se ne ritornasse senz'aver fatto nulla, del che riferì a Venère… Ora, Venère, avrebbe avuto il dovere preciso di ripetere il giorno seguente la chiamata del medico. Se egli tralasciò di far ciò, si fu evidentemente perché le interiora se ne erano andate, durante la notte, in completa putrefazione. Si disse ancora che il dottor Longharé avrebbe inflitto una punizione a Venère; ma, evidentemente, fu una pura voce, perché, poco tempo dopo, vidi quest'uomo in assisa di ufficiale… Quando, un giorno, feci osservare a Venère che anche la pelle non conciata dell'animale morto di carbonchio avrebbe conservato i
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germi d'infezione, e che, quindi, non doveva essere affatto adoperata per confezionare pantofole ai prigionieri, egli mi dichiarò che la pelle era già stata venduta. Siccome nella fretta mi ero dimenticato, parlando col medico francese, di richiamare la sua attenzione sulla necessità di nettare a fondo tutti gli arredi di cucina che avevano avuto contatto colla carne ammalata, misi Venère a cognizione di questa necessità per mezzo dell'interprete. L'aguzzino mi rispose sfacciatamente che queste eran cose che non mi riguardavano affatto, ed aggiunse col suo solito sorriso cinico e di sdegno, facendo ronzare in aria spavalda il suo scudiscio, che se mi fossi azzardato di mischiarmi in cose che non mi riguardavano avrebbe saputo ben maneggiare la frusta anche con me…
Quando giunsi a Kandi non stavo bene di salute ed il mio stato peggiorò ad Abomé per più ragioni. Anzitutto quel dovere continuamente assistere alle sofferenze dei miei compatriotti ed a tutte le crudeltà commesse su di essi dai feroci aguzzini, mi mantenevano in uno stato di continua depressione. Il servizio era poi troppo lungo e da ultimo non potevo compierlo che meccanicamente. Per questa ragione, verso la fine del maggio 1915, il signor tenente medico dottor Simon prese il mio posto…
Partii il 31 maggio 1915 per Widah in seconda classe.

4. A Widah.

A Widah si trovavano gli ufficiali ed alcuni signori colle loro mogli rimasti alla costa. Essi erano stati allogati
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a gruppi in diverse case di commercio tedesche. Da principio fu permesso a tutte le signore di uscire in certe ore del giorno per fare i loro acquisti al mercato o recarsi alla chiesa. Più tardi, però, solo alcune donne ebbero il permesso di uscire per fare gli acquisti, ma sempre accompagnate da un soldato di colore. La liberta di movimento di questi internati non si estendeva che alla casa e al cortile… Ad ogni gruppo era permesso di tenere un cuoco negro e un servo. Nessun'altra persona aveva accesso alla casa. Ma, peggio di tutto, erano le visite che un sottufficiale francese e il comandante di Dahomé, capitano Poncot, facevano ai prigionieri. Entrambi tenevano un contegno rozzo e indecente specialmente innanzi alle signore…

firmato: professore dottore Zupitza,
maggiore medico in riposo.
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Allegato No. 8.
Estratto dal rapporto di AnDr. Sch…

1. Ad Abomé.
La mattina seguente risuonò il solito grido imperioso: "Tutti al lavoro!" Divisi in truppe, fummo mandati in vari luoghi. Io fui addetto alla costruzione di strade ed alla demolizione di vecchie muraglie. Per ore ed ore dovevamo faticare senza volgere per un istante altrove gli sguardi sotto i raggi ardenti del sole, con alle còstole i soldati di scorta, armati di randelli. La pala e la zappa non dovevano arrestarsi un solo minuto, perché, caso contrario, andavamo incontro a sicure e gravissime pene. Io stesso non ho mai potuto comprendere come potessimo sopportare quella vita, né da dove ci venisse tanta rassegnazione… Un giorno stavo scaricando delle pietre da un baroccio insieme ad un compatriotta caduto prigioniero nel Camerun, allorché venne l'interprete e domandò al mio compagno perché non lavorasse. Meravigliato, il mio compagno rispose gentilmente che la domanda gli sembrava strana, imperocché, come l'interprete stesso doveva aver veduto, faticava e con lena allo scarico delle pietre. L'interprete partì e si recò dall'aiutante, il quale ordinò l'applica-
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zione dei "pollici" al mio compagno, e li fece stringere così fortemente che il povero tormentato cadde al suolo privo di sensi e si riebbe solo dopo molto tempo. Io potevo asseverare con sicura coscienza che il mio compagno aveva lavorato indefessamente, e che la punizione non si doveva ad altro che a vendette. Più della quarta parte di tutti i prigionieri dell'accampamento furono condannati alla punizione dei "pollici". Par parte mia sono contento di non aver esperimentato il barbaro ordigno. Fui soltanto 3 volte in carcere e tutte tre le volte insieme a compagni che si contorcevano pietosamente in terra dagli atroci spasimi cagionati dai soliti ordigni applicati alle falangi dei pollici. Inutile domandare per quale ragione questo o quello era stato punito. Ragioni vere e proprie non ve n'erano mai, perché nel campo imperava il più sfacciato arbitrio e gli aguzzini si dilettavano a sfogare sui prigionieri il loro istanto [sic] brutale e sanguinario.
Quando i prigionieri di Nola (Camerun) furono condotti nel campo di Abomé, due francesi armati di scudiscio si collocarono ai due lati dell'ingresso dell'accampamento. Appena i prigionieri varcavano la soglia dell'ingresso ignari della sorte che li attendeva, una tempesta di scudisciate si scaricava sulle loro teste. Questi ed altri maltrattamenti avvenivano in presenza di soldati negri… Uno dei momenti più atroci della nostra vita di prigionieri era il veder passare dal cortile qualche compagno colle mani chiuse dai "pollici" e seguito da due negri armati di randelli. Il cuore ci dava allora una stretta, perché sapevamo che quel misero veniva rinchiuso nella prigione, dove i negri lo massacravano.
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Infatti, pochi minuti dopo, ci giungevano le grida squarciate del martirizzato, finché il silenzio che succedeva ai lamenti non ci faceva comprendere che l'infelice, era caduto privo di sensi ai colpi bestiali degli aguzzini negri, e agli inenarrabili strazi dei "pollici" stretti fino a schiacciare le falangi delle dita.
Nei primi tempi i nostri compagni avevano dovuto estirpare tutte le erbacce dai dintorni dell'accampamento. Ora, chi non conosce le macchie africane, non si può far un'idea nemmeno approssimativa dei viluppi di spine, di liane e di piantacce pericolose e puzzolenti, che minacciano le mani, il corpo, gli occhi, il respiro ad ogni piè sospinto, e nascondono ogni sorta di insidie: dalle mefitiche pozzanghere, agli insetti velenosi; dalle punture dolorose delle spine, al morso delle vipere… Ebbene: questi intricati viluppi, alti fino a due metri dovettero essere estirpati dai prigionieri colle sole mani, senza l'aiuto di nessun istrumento, collo stomaco vuoto fino al mezzogiorno e sotto un sole scottante. I soldati avevano avuto l'ordine preciso di stare attenti che i prigionieri non cessassero il loro lavoro nemmen un minuto per riprendere fiato. Chi, anche con mossa rapida, si tergeva il sudore dalla fronte o faceva l'atto di uccidere qualche mosca fastidiosa, si sentiva arrivare fra capo e collo una furibonda randellata. Questa pena da bolgia infernale continuava tutta il giorno…
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2. A bordo del "Tibet".
…Imbarcati nella piccola carboniera francese "Tibet", fummo mandati nella stiva e costretti a coricarci sul nudo legno. Le poche cabine vennero occupate da alcuni ufficiali del Camerun… Dopo 16 giorni arrivammo a Casablanca.

3. Nel campo di concentrazione di Mediouna.
Due giorni più tardi partimmo per il campo di concentrazione di Mediouna, lontano circa 20 chilometri da Casablanca. Soltanto noi della colonia fummo rinchiusi in questo accampamento. Dapprima i sottufficiali non erano obbligati a lavorare, ma il trattamento di favore non durò a lungo ed anch'essi dovettero ben presto sottoporsi a gravi fatiche come e più di noi… Anche qui dovevamo dormire in terra. I pancacci vennero molto più tardi ed in numero insufficiente. Dall'agosto 1915 al maggio 1916 io non ebbi mai il bene di dormire sul legno. Il mio letto fu sempre la madre terra. Eravamo deperiti in modo pauroso; tutti eravamo anemici; affetti, chi più chi meno, da malattie tropicali, portate dal Dahomé, come febbri biliari-emoglobinuriche, febbri malariche e dissenteria. Avemmo a deplorare purtroppo molti casi di morte. Verso Natale, una commissione neutrale venne a visitarci, ma prima che quei signori ci passassero in rivista, ricavammo l'ordine perentorio di non pronunciare nemmeno una parola. Due signori svizzeri della commissione furono condotti nelle ten-
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de migliori occupate da pochi prigionieri e munite di brande: nella cucina pendevano attaccati a due ganci due maiali macellati da fresco… I signori della commissione debbono aver ricevuto una buona impressione, perché le tende visitate erano mascherate e preparate all'ultimo momento in modo da destar l'idea dell'abbondanza e della comodità. Ma che in quelle tre o quattro tende non potevano abitare tutti i prigionieri del campo; che dei maiali non ricevemmo nemmeno una cotenna; che dormivamo sulla nuda terra, in tende piene di strappi e di tane; che i malati se ne morivano senza cure e senza medicine; che gli scudisci, i bastoni, i flagelli, i "pollici", ci martoriavano a sangue; ecc.; ecc.; di tutto ciò la commissione non vide ne sentì nulla, purtroppo! Essa era stata burlata in modo compassionevole.
Tuttavia la visita della commissione portò seco singoli miglioramenti. È vero che il vitto continuò, dopo qualche giorno, ad essere anche più insufficiente di prima; che la carne la vedevamo ad ogni spuntar di luna; ma le punizioni "sotto la tenda" o "nel canile" (come lo chiamavamo noi), furono abolite. Quello che chiamavamo "canile" consisteva in un telo da tenda assicurato a 4 pali alti da terra 60 cm., piantati in mezzo al cortile. Sotto questo telo i prigionieri dovevano scontare le loro punizioni, qualche volta fino a 30 giorni consecutivi, senza uscirne mai, esposti a tutte le intemperie e agli straordinari sbalzi di temperatura fra il giorno e la notte. Il punito non poteva né erigersi sulla persona, né star seduto; ma era obbligato a giacere continuamente. Era permessa una sola coperta, per quanto, durante le notti, la temperatura scendesse alcuni
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gradi sotto zero fino a far gelare l'acqua nei recipienti, e durante il giorno risalisse di sbalzo fino a determinare un'afa insopportabile. Gli sbalzi della temperatura ci procurarono molti tormenti a causa dell'anemia generale che ci faceva battere i denti anche quando il freddo non era tanto grande. Alcuni dei nostri camerati cercarono di migliorare la loro sorte dandosi alla fuga, ma dopo pochi giorni furono ripresi… Dopo avere scontato 30 giorni di arresti, furono condotti nell'accampamento disciplinare di El Borudj. Da quel campo ci giunsero notizie di orribili maltrattamenti. Si disse che persino il comandante si era reso colpevole di sevizie, operate colle sue stesse mani sugli infelici prigionieri…

4. Verso la Francia.
Fummo imbarcati nel vapore "Chaujia" che si recava a Marsiglia e collocati in una stiva profonda, completamente oscura. L'uscita era sbarrata con longarine di ferro e furono messi a nostra guardia circa 12 senegalesi. In una certa ora del giorno potevamo recarci in alto per sfogare i nostri bisogni corporali, ma i minuti accordatici erano troppo pochi; e, specialmente quando il mare era agitato, assolutamente insufficienti. Si noti ancora che soltanto un prigioniero dopo l'altro poteva recarsi in alto, il che portava via un tempo prezioso. Ora avvenne spesso che, dopo aver aspettato più di un'ora uno dietro l'altro nella scala, ci vedevamo chiudere in faccia il boccaporto d'uscita e dovevamo ritornarcene nella stiva senza aver sfogato i nostri impellenti bisogni. Ci si può ben immaginare
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quel che allora accadesse. I prigionieri erano costretti ad evacuare ed orinare nella stiva stessa, priva d'aria e di luce. Giacevamo sul nudo legno l'uno accanto all'altro senza nemmeno una coperta. L'aria era irrespirabile, appestata dagli escrementi. Gli ammalati di polmoni cominciarono a tossire atrocemente ed a spurgare sangue. Mi ritrovai ad una scena che nemmeno nell'inferno vi può essere simile. La sera vennero due o tre ufficiali coloniali ubriachi che ci ricopersero di vituperi minacciandoci continuamente colle rivoltelle. La mattina dopo, senza nessuna ragione al mondo, il povero ufficiale di servizio malato fu rinchiuso in una cella d'arresto e ci fu tenuto per tutta la traversata… Più tardi avemmo il permesso di andar a prendere un'ora di aria fresca… Cinque signore del Togo non ebbero sorte migliore di noi e furono egualmente cacciate in una stiva luridissima e senza coperte. Giungemmo a Marsiglia dopo 4 giorni di viaggio. Colà fummo fatti sfilare per le strade della città, circondati dalla popolazione curiosa e dalla ragazzaglia che ci dileggiava. Eravamo 170 uomini. Le donne ci seguivano in una carrozzella scoperta fatte bersaglio delle ingiurie e persino delle immondizie… Fummo acquartierati in una grande stalla della cavalleria. Le donne pregarono un ufficiale francese di potere alloggiare, pagando di propria tasca, in un qualche albergo; ma la proposta fu rigettata ed esse dovettero adattarsi con noi nella stalla… Durante la notte non potemmo dormire perché divorati dalle cimici e dai pidocchi che colà dimoravano in grande quantità…
Firmato: An Dr. Sch…
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Allegato No. 9
Estratto dal rapporto di C. L…

Abomé.

Venère non si contentava di batterci con un nerbo di bue, ma infliggeva con grande larghezza la cosiddetta punizione dei "pollici". Si trattava di un ordigno di ferro con due aperture sufficienti per introdurvi le falangi dei pollici, mentre due viti premevano un lastretto, pure di ferro, che operava la pressione ed anche la schiacciatura delle falangi stesse. Qualche volta le viti vennero strette in modo da schiacciare non solo le ossa, ma da determinare l'enfiamento e il conseguente scoppiamento dei polpastrelli. Agli ordigni poteva essere applicata una catenella alla quale pendeva un ceppo di legno. Due prigionieri, congiunti alla catena cogli ordigni stretti alle dita, dovevano starsene per ben due ore colle braccia tese, perché il ceppo di legno attaccato alla catena operasse un continuo strappamento. Due soldati neri che facevano la funzione di boia, colpivano crudelmente col calcio del fucile i tormentati, che, oppressi dagli atroci tormenti, allentavano le braccia, facendo sì che il ceppo toccasse terra. I due boia, allora, picchiavano calciate, finché
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le braccia non ritornavano nella posizione orizzontale. Questa infame punizione veniva comminata per qualsiasi piccolezza; così per esempio, si ebbero i "pollici" due commercianti malati, i quali, dovendo liberare dalle immondizie il cortile, si erano riparati un momento dal sole scottante sotto l'ombra di un albero vicino. Nel novembre del 1914 chiappai le febbri malariche e febbri delle urine nere, aggravate dalla dissenteria. Niente fu fatto per curarmi; né il medico non si diede mai pensiero del mio gravissimo stato. Un giorno, mentre giacevo nel mio canile, consumato dalla febbre a 40 gradi, venne Venère accompagnato dal sergente Castelli, mi impose di alzarmi e di recarmi al lavoro. Avendo fatto un inutile tentativo di rizzarmi in piedi e mostrato agli aiutanti il mio deplorevole stato, Venère mi buttò giù dal pancaccio, mi lasciò andare più colpi di scudiscio e gridando: "Porco d'un tedesco!" ed altri insulti ancora, se ne andò non senza avermi tirato alquanti calci. Questo bruto entrava spesso nelle varie capanne in cui giacevano i malati di febbre e domandava loro – (lo domandò anche a me più volte) – se non erano ancora crepati. Il suo divertimento era quello di dar gomitate, bastonate e calci ai recipienti dell'acqua, troppo necessaria ai febbricitanti per calmare la loro ardente sete, costringendo così questi a soffrire gli spasimi dell'arsione. Nel gennaio 1915 il mio peso normale di 73 chili era sceso a 42. Ad Abomé molti miei camerati furono torturati e maltrattati. Essi non potevano, come me, essendo fisicamente rovinati del tutto, sopportare il lavoro come i nostri aguzzini l'avrebbero voluto. I soldati di scorta non lasciavano tregua ai derelitti e li sorprendevano a scudisciate
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ogni volta che si riposavano un po'. Facevano quindi rapporto e quelli venivano buttati in prigione, tenuti senza cibo né bevande, con i "pollici" alle dita che causavano loro continui ed inenarrabili strazi.
Al principio del febbraio 1915 vennero per la prima volta ufficiali francesi a visitare il nostro campo di concentrazione. Noi estraemmo a sorta quel compagno che avrebbe dovuto presentare le proteste a nome di tutti, specialmente contro la punizione dei "pollici" e per il fatto che, ogni giorno, dai 15 ai 20 prigionieri venivano sferzati coi nerbi di bue. L'ufficiale francese al quale fu presentata la protesta, rispose secco secco: "Se ve le hanno date, ve le sarete meritate!" Appena l'ufficiale francese se ne fu partito, l'aiutante punì tutti quelli che si erano lamentati. Furono fustigati, rinchiusi in prigione, tenuti con poco o con punto cibo, mandati poscia a compiere lavori specialmente gravosi con sorveglianza raddoppiata. Essi dovevano lavorare ancora la domenica dalla mattina alla sera, con appena mezz'ora di pausa. Tra essi trovavansi due ufficiali capi di prima e di seconda classe, in età di 48 e di 54 anni. Non avendo potuto portar con noi nessun effetto di vestiario di riserva, ed essendo ridotto completamente in brandelli quello che avevamo continuamente addosso, la maggior parte di noi, già nel gennaio 1915 se ne andava attorno con una tenda leggera legata ai fianchi, la parte superiore del corpo coperta dagli ultimi stracci di una camicia, l'elmo dei tropici lacero e pieno di fitte, i piedi scalzi. Nessuno ci avrebbe presi per europei, vedendoci in quel miserabile stato. Avvenne sovente che donne negre, mosse da compassione, ci regalassero qual-
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che banana. Eravamo ridotti, infatti, come scheletri ambulanti, come le ombre di noi stessi. Le donne non dovevano farsi scorgere nella loro opera pietosa dall'aiutante; perché altrimenti le avrebbe percosse in volto col suo scudiscio.
A poco a poco eravamo talmente deperiti, divenuti apatici e indifferenti a qualsiasi strazio umano, che persino le grida squarciate di dolore dei nostri camerati sottoposti a tortura non ci scuotevano. Nel marzo 1915 vennero nel nostro accampamento i primi trasporti dei prigionieri tedeschi del Togo. L'aiutante Venère e il sergente Castelli li ricevettero alla stazione ferroviaria e li accompagnarono, more solite, a suon di nerbate fino all'accampamento. Poco dopo venimmo a sapere che altri ufficiali francesi sarebbero venuti a ispezionare l'accampamento, ma noi non speravamo, per questo, in un miglioramento della nostra situazione. Questa volta volevamo presentare le nostre proteste scritte, ma l'aiutante venne a capo del nostro proposito. Egli si fece condurre davanti, in guardina, il nostro camerata sorpreso mentre stava scrivendo la protesta; e, per dieci minuti, udimmo le sue disperate grida. Qualche giorno dopo giunsero, infatti, gli ufficiali francesi ad ispezionare il campo. All'appello l'interprete ci tradusse che tutti coloro che avevano da lamentarsi di qualche cosa, si facessero avanti; che, però, venivano accettate soltanto le proteste che si riferivano al mangiare. Così tradusse, certamente di sua testa, l'interprete che la teneva dai nostri aguzzini; ma siccome ci era riuscito, frattanto, gareggiando in furbizia e in circospezione, di mettere insieme una protesta scritta, il nostro compagno che la teneva nascosta si fece innanzi e la consegnò al-
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l'ufficiale francese. Questi se la mise in tasca senza mostrarla all'aiutante, con stizza evidente di quest'ultimo. L'ufficiale, vedendoci così male in arnese, ci domandò se avevamo altri abiti da indossare; al che rispondemmo naturalmente di no. Nel giorno dell'ispezione avemmo a ogni pasto cibo abbondante; ma non appena gli ufficiali se ne furono andati, l'aiutante sfogò, come una belva irritata, la sua ira repressa, e piovvero le scudisciate, le bastonate, i calci e le punizioni dei "pollici". Quindici giorni dopo l'ispezione degli ufficiali francesi arrivò farina e tè per i malati e caffè per gli altri prigionieri. L'aiutante feroce, però, rimase; né le abominevoli punizioni cessarono. I nostri camerati decessi in seguito ai patimenti non furono tumulati, ma, come animali, coperti con poche palate di terra. A noi era appena permesso di recarci sui loro tumuli a fare atto di pietà verso quelle innocenti vittime dell'umana ferocia.
Firmato: C. L…
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Allegato No. 10.
Estratto dal rapporto del pilota di porto K. Klein, proveniente da Duala, sulla sua prigionia in Africa. Il rapporto fu esteso il 5 agosto 1916 e confermato l'8 febbraio 1917 con giuramento davanti al R. Tribunale di Lück.

1. Ad Abomé.
I prigionieri condannati a pene disciplinari venivano bastonati di santa ragione, prima di essere rinchiusi nel locale d'arresto. Nella maggior parte dei casi Venère li faceva portare nella sua abitazione, applicava loro i "pollici" e li percoteva brutalmente in faccia, a pugni e a scudisciate. Qualche volta Venère si recava nel locale d'arresto e massacrava colà i prigionieri, facendosi prestare man forte nella criminosa bisogna dal Castelli e, più tardi, quando questi se ne fu andato, dal Gianzelli, un francese senza grado. Per sua sicurezza personale Venère, ogni volta si recava nel locale di arresto a massacrare i prigionieri, si faceva accompagnare da un certo numero di soldati neri. Ad un suo ordine anche questi dovevano aiutarlo a "maturare" i prigionieri. Ad un povero camerata di cui non ricordo il nome, fu addirittura infranto l'osso del naso. Durante la
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bastonatura a morte, Venère teneva spianato il revolver davanti al viso dei prigionieri più forti.

Casi speciali di maltrattamenti.
1. Il prigioniero K…, proveniente da Duala, fu il primo a provare il martirio dei "pollici"; e questo perché fu riscontrata una piccola irregolarità nel forno.
2. Il macchinista K…, della linea di navigazione Woermann, si era costruito, nella officina dove lavorava, un coltelluccio con un pezzetto di ferro. Quando Venère gli vide il coltelluccio, che quegli mostrò impunemente non credendo di essersi reso reo di colpa alcuna, lo punì colla prigione, gli applicò i "pollici" e lo percosse in faccia col flagello. I colpi produssero della sugillazioni [sic] sanguigne. Dopo 8 giorni, quando il prigioniero K… ebbe espiato la sua pena, potei scorgere ancora sulla sua faccia le tracce dei colpi.
3. Due prigionieri furono incatenati e martoriati con i "pollici", quindi frustati a sangue da Venère e dal Castelli. I due ordigni vennero collegati con una catenella lunga un metro e nel mezzo della catena fu appeso un ceppo di legno. I due martirizzati vennero condotti quindi al portone d'ingresso e là dovettero, in preda ai più strazianti dolori, tener continuamente tesa quella catena perché il ceppo di legno non toccasse terra. I carnefici li percutevano ferocemente sulle braccia, quando queste si allentavano e il ceppo si abbassava. Per ben 3 ore dovettero sopportare tali tormenti.
4. Il compagno W…, proveniente dal Camerun, fu sorpreso
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mentre scriveva una protesta. Condotto in una capanna vuota fu quasi massacrato dal Castelli, che, in un accesso d'ira selvaggia o di crudeltà raffinata, si fece portare un fucile, lo caricò e prese di mira l'infelice prigioniero per fargli credere che la sua ultima ora fosse giunta. Poi ordinò ai negri che lo "maturassero" coi loro randelli. Durante la tortura potemmo udire i sordi colpi dei bastoni sulle carni del disgraziato ed i suoi gemiti che avrebbero impietosito le pietre. L'infelice stette molto tempo tra la vita e la morte, e noi stessi potemmo veder le orribili lividure che gli coprivano tutto il corpo.
5. Venère incontrò una volta un prigioniero nudo che stava bagnandosi approfittando di un momento di requie, dopo aver compiuto il suo lavoro. Il bruto lo percosse reiteratamente col suo terribile scudiscio d'ippopotamo; e, sempre tempestandolo di colpi e di calci nel sedere, lo spinse, nudo come era, attraverso il cortile e nella sua capanna, in mezzo alle sghignazzate delle donne e dei negri indigeni.
6. Il prigioniero L…, proveniente dal Camerun, fu flagellato da Venère senza ragione al mondo. Il percosso cercò di parare colle braccia i colpi mirati al suo viso. Allora Venère chiamò il Castelli ed alcuni soldati neri perché gli presentassero man forte, e quelli, in breve tempo, a forza di calci e di legnate, ridussero il disgraziato in fin di vita. Non contento ancora, Venère, il boia dell'accampamento, gli fece mettere alle mani l'ordigno dei "pollici". Il fatto venne agli orecchi del comandante, il quale volle vedere un po' più addentro nella cosa e ordinò che il disgraziato fosse lasciato in pace, libera-
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to dai "pollici" e ricondotto nella sua capanna. Fu questo l'unico caso, io credo, nel quale il comandante, il vecchio maggiore, fece uso della sua autorità contro quel l'anima malnata di Venère.
7. Al prigioniero P…, del Camerun, furono stretti i pollici così fortemente che cadde al suolo privo di sensi e fu poi colto da convulsioni.
8. Il prigioniero G…, proveniente dal Camerun meridionale, giunse con un trasporto ad Abomé nei primi giorni del marzo 1915. Venère andò, come sempre, a ricevere a frustate i suoi ospiti. Erano circa 20 uomini. Appena scesero dal treno, Venère li salutò con una scudisciata e, poco dopo, li indusse a spingere con più velocità i vagoncini, carichi di valigie della ferrovia a scartamento ridotto, a forza di frustate e di punzecchiamenti colla baionetta da parte dei soldati di scorta. Giunti nell'accampamento a notte inoltrata, Venère volle dare ai nuovi arrivati una prova della sua autorità; ed entrato in mezzo ad essi come in un branco di pecore, cominciò a roteare il suo scudiscio e a battere sui volti, sulle mani e sulle spalle dei disgraziati. Il prigioniero G…, fu così malamente colpito in un occhio che fu necessario un lungo trattamento medico. Il bulbo era completamente iniettato di sangue e tutta la parte dell'occhio di fuori rimase nera per molte settimane. Ci vollero molte settimane prima che il prigioniero potesse dirsi guarito.
9. Più tardi giunsero ad Abomé molti trasporti di Tedeschi provenienti dal Togo. Tutti furono ricevuti come nel
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caso descritto al numero 8. Dopo il "saluto" di Venère, all'arrivo di ogni nuova truppa di prigionieri, molti passavano alle prigioni, altri all'infermeria per farsi medicare e fasciare.
10. Venère aveva, del resto, le sue simpatie e le sue antipatie. Gli antipatici erano quelli che venivano mandati sempre a nettare i recipienti dell'infermeria ripieni degli escrementi dei malati. Ci si può ben immaginare come una tale operazione fosse ributtante ed anche pericolosa, perché nell'infermeria vi erano malati di stomaco e di dissenteria. Anche i negri si servivano di quei recipienti per sfogare i loro bisogni corporali.
Un giorno il prigioniero K…, addetto alla vuotatura di questi recipienti, fu obbligato dai soldati ad estrarre da essi gli escrementi servendosi delle mani.
Pochissimi degli europei fatti prigionieri a Duala possedevano più di un abito. I soldati d'equipaggio, fatti prigionieri insieme agli altri, erano in parte vestiti di abiti gravi all'europea, i quali, specialmente i calzoni, le camicie e le scarpe, furono ben presto ridotti in brandelli a causa dei lavori gravi cui dovevano accudire. Non essendo forniti indumenti di ricambio avvenne che ben presto quei poveretti dovevano stare in un costume quasi adamitico. Un prigioniero proveniente da Duala, un certo G…, si infilò la camicia a guisa di calzoni per coprirsi almeno la parte inferiore del corpo. Nei giorni di bucato i prigionieri si mettevano un cencio ai fian-
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chi non avendo nessun indumento per cambiarsi. Alcuni andavano quasi nudi, finché qualche camerata non li aiutava, regalando loro un qualche straccio. Quando le scarpe furono tutte consumate i prigionieri si confezionarono dei sandali con pelle cruda di bovi macellati nel campo. Questi sandali erano un tormento, perché la pelle si induriva, si accartocciava e piagava i piedi degli infelici. Inutile dire che mancava qualsiasi traccia di calzerotti o di pezze da piedi. Le pulci della sabbia, che si trovavano a milioni ad Abomé, si incarnivano fra le unghie e procuravano inenarrabili spasimi ai prigionieri. Nei giorni di pioggia le pantofole fatte con questa pelle non conciata si ammorbidivano, puzzavano, e non c'era verso di poter tenerle nei piedi.
Verso la metà del febbraio 1915, dovendo avere luogo una revisione, furono fatte venire scarpe e camicie e distribuite quindi a quasi tutti i prigionieri. Calzoni e giacchette furono confezionate con tela turchina. Soltanto verso la fine del luglio 1915, quando cioè i prigionieri dovevano essere trasportati al Marocco, ebbero un abito color khaki.

2. A bordo dell'"Asie".
Il 4 luglio 1915 marciammo fino alla stazione ferroviaria, e, dopo un viaggio in treno di quattro ore, giungemmo a Cotonou dove fummo acquartierati nelle medesime rimesse come quando arrivammo da Duala. Il 6 luglio fummo imbarcati sul vapore francese "Asie" e sbarcati al Marocco. Mancando posto nel vapore, 100 uomini dovettero rimanere a terra. Col medesimo va-
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pore furono trasportati ancora gli ufficiali fatti prigionieri a Togo insieme alle loro signore. I 100 uomini rimasti a Cotonou giunsero al Marocco 6 settimane più tardi. Fummo allogati dapprima nel campo di concentrazione di Casablanca, dove alloggiavamo entro tende. Rimanemmo a Casablanca 4 settimane e fummo quindi trasportati a Mediouna.

3. A Mediouna.
A Mediouna si estraevano pietre da una cava per riempire una palude nei pressi della fortezza. Anche l'impiantito delle tende veniva lastricato ed occorrevano pietre. Purtroppo non tutti i prigionieri disponevano di un pancaccio e dovevano dormire sulla nuda terra, ciò che fu oltremodo spiacevole, specialmente dal dicembre 1915 al febbraio 1916. Gli oggetti inviati dal Ministero delle Colonie germanico furono trattenuti fino al marzo 1916. Allora, proprio mentre cominciava a ritornare il caldo, ci furono consegnati i nostri indumenti gravi di lana.
Il 4 maggio 1916 fui ricondotto a Casablanca insieme ad altri 30 compagni di prigionia, fra cui 5 donne, per essere rimandato quindi nella Svizzera…
Firmato: Klein, pilota di porto.
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Allegato No. 11.

Estratto dal rapporto di F. St…, O. F…, e O. M…

1. Ad Abomé.
Nei primi tre mesi non ci vennero distribuiti abiti di sorta. Avevamo indosso un leggero abito per i tropici che ben presto si consumò. Ci muovevamo nell'accampamento con i fianchi coperti di stracci, e ci ingegnammo di far calzoni colle camicie e camicie colle mutande, a seconda dei casi. Le scarpe ben presto se ne andarono in pezzi, e quasi tutti fummo costretti a camminare scalzi senza protezione alcuna contro le pulci della sabbia che ci martoriavano in modo indicibile. Innumerevoli erano gli ammalati di piedi, molto più che la maggior parte dei prigionieri non potevano sopportare certe odiose pantofole cucite con pelle di vacca non conciata, e che infiammavano i piedi causando vere piaghe. Dopo 15 giorni di permanenza colà fummo costretti ai lavori forzati, che consistevano nella demolizione di alte e robuste muraglie di mota, divenuta resistente quasi come il calcestruzzo e per le quali occorrevano pesantissime piccozze. Dovevamo estirpare dalla macchia e dalle erbacce certe superfici di landa disabitata, confezionare mattoni di argilla, costruire case, aprire strade, ecc., ecc. Il lavoro, per quanto duro e lungo, l'avremmo sopportato, se non fossimo stati vigilati continuamente da selvaggi neri che ci maltrattavano
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colla punta della baionetta, a forza di colpi col calcio del fucile, a pedate e a bastonate. Per confortare le nostre asserzioni vogliamo indicare i nomi di alcuni testimoni:
Il prigioniero W…, proveniente dal Camerun, fu maltrattato a ceffate e scudisciate; il negoziante M. O… a pedate; il commerciante F. St… a colpi col calcio del fucile. Lo stesso dicasi dei prigionieri P…, W…, H. W…, e tanti altri che subirono identici maltrattamenti.
Otto ore di lavoro al giorno, e più precisamente dalle 6 alle 11 della mattina e dalle 2 alle 5 del pomeriggio sotto il calore dei tropici e col vitto insufficiente e il trattamento infame, erano così estenuanti che dopo poco tempo eravamo ridotti pelle ed ossa. Senza nessunissima necessità al mondo il lavoro ci fu reso ancor più torturante per il fatto che ci obbligavano ad estirpare colle sole mani le piante spinose e le erbacce. La malvagità dei nostri aguzzini si spingeva fino al punto da prescriverci le mosse e le posizioni nelle quali dovevamo eseguire il lavoro. Dovevamo star curvi senza piegare i ginocchi, il che rendeva indicibilmente più dolorosa la nostra posizione. Un negro stava attento a chi piegava anche un poco i ginocchi e subito gli era addosso col randello o collo scudiscio. Non erano ammesse pause nemmeno di qualche minuto. Non ci lasciavano neppure tempo di cavar il fazzoletto e di asciugarci il sudore. Quando arrivava la farina o il riso, alcuni prigionieri, nell'ora più scottante del mezzogiorno, e ben spesso anche la domenica, venivano mandati alla stazione perché trasportassero a spalla all'accampamento i sacchi che pesavano, sovente, fino ad 80 chilogrammi.
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I soldati negri ci chiamavano con epiteti che equivalevano ad atroci insulti. Ogni giorno qualche camerata, fiaccato dal troppo lavoro, stramazzava a terra privo di sensi e doveva essere trasportato a braccia nell'infermeria. I sottoscritti sono stati troppe volte, purtroppo, testimoni di certe scene dolorose…
Le punizioni consistevano generalmente nella prigione, nei colpi di scudiscio e di bastone, nonché nell'applicazione dei "serrapollici". Tutti quelli che avevano scontato la prigione dovevano essere occupati nei lavori più grevi e più spiacevoli, sotto la vigilanza dei più crudeli aguzzini. Veniva quindi tolta loro la colazione che consisteva ordinariamente in una minestra fatta con pezzi di makabo. Bene spesso veniva loro sottratta la carne per molti giorni di seguito. Abbiamo osservato che queste punizioni venivano applicate con una stupefacente larghezza e facilità. Vogliamo addurre alcuni casi fra i moltissimi che potremmo riferire.

1. Caso K…, proveniente da Duala.
Dietro delazione di un soldato negro, al prigioniero K…, perché non lavorava con la celerità desiderata all'estirpazione delle gramigne, furono applicati i "pollici" dall'aiutante Venère sul luogo stesso del lavoro; dopo qualche ora, sempre con i "pollici" alle mani e scortato da due soldati negri, fu condotto attraverso il villaggio e rinchiuso nella prigione dove rimase 8 giorni.

2. Caso W…
L'impiegato W… fu rinchiuso in una capanna e ver-
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gato a sangue dai soldati neri, mentre un francese bianco detto "Jumbo" gli teneva la rivoltella spianata davanti agli occhi. Le atroci grida del disgraziato si poterono udire in tutto l'accampamento. Non si poté mai sapere che cosa avesse fatto per meritarsi così grave pena, ed egli stesso non poté attribuirlo ad altro che ad un'antipatia di qualche francese o di qualche negro di scorta.
3. Caso H. W…
Il prigioniero H. W… fu fustigato da Venère e bastonato così barbaramente dai soldati negri che cadde al suolo privo di sensi. Il W… nell'oscurità aveva scambiato Venère per un camerata e lo aveva salutato confidenzialmente. Per molte settimane potemmo scorgere sulle spalle del disgraziato le tracce sanguigne dei colpi di scudiscio e di bastone.

4. Caso K…
Il prigioniero K… fu punito da Venère con crudelissimi colpi di scudiscio e prigione dura; dovette quindi sottoporsi a lavori faticosissimi durante il giorno, e nelle ore della mattina fu forzato a togliere colle mani dalle latrine dell'ospedale gli escrementi degli affetti da dissenteria. Non fu mai possibile assodare la ragione che determinò questi maltrattamenti.

5. Caso K…
Il prigioniero K… fu percosso da Venère colla sua frusta d'ippopotamo, martirizzato coi "serrapollici" e buttato in prigione, perché nell'officina dell'accampamento si era foggiato un coltellino per tagliare il pane. Le sue spalle
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mostravano, anche dopo molte settimane, vibici grosse un dito, livide e sanguigne, che facevano ribrezzo: tanto grande era stata la violenza delle scudisciate.

6. Caso L…
Il prigioniero L…, proveniente da Duala, si ebbe da Venère un pugno così poderoso al naso che la sua faccia ne rimase per sempre deformata. Oltre a ciò si buscò quindici giorni di prigione previa applicazione dei "pollici". Anche in questo caso non si seppe la ragione del feroce trattamento.

7. Caso K…
Il prigioniero K… fu maltrattato dal Castelli a pugni nel viso e a calci nel sedere, colle scarpe ferrate; perché, avendo delle ferite purulente ai piedi e alle gambe, si era dato malato, e il Castelli era d'opinione che si trattasse di pigrizia.

8. Caso St…
Il prigioniero St… fu colpito così violentemente alla testa da Venère, che dovette rimanersene molto tempo nell'infermeria in preda ad acutissimi dolori. Più tardi, specialmente nei giorni più caldi, l'infelice era colpito da atroci emicranie. Ignoti i motivi della punizione.

9. Caso P…
Il prigioniero P… di provenienza dal Camerun, fu condannato da Venère a molte settimane di prigione e ai "pollici". Uscito di prigione fu sottoposto ai lavori forzati estre-
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mamente duri con raddoppiata vigilanza di soldati neri; e questo perché, si disse, un giorno non aveva lavorato abbastanza.

10. Caso L…
Il prigioniero L…, proveniente dal Camerun, fu chiamato nella casa di Venère, e colà massacrato da Venère e dal Castelli a pugni e a scudisciate. Terminata l'operazione furono applicati al disgraziato i "serrapollici". Fu quindi rinchiuso in prigione per 15 giorni.

11. Caso St…
Il commerciante St… fu punito coi "pollici" e colla prigione perché aveva rivolto la parola ad un soldato nero che non lo comprese e fece rapporto a Venère.

12. Caso N… e B…
I prigionieri provenienti dal Camerun N… e B… furon puniti coi "serrapollici"; messi, quindi, l'uno di fronte all'altro, congiunti gli ordigni con una catenella ed a questa appeso un ceppo di legno. Nel locale di guardia due negri li vigilavano perché non allentassero le braccia e facessero abbassare il ceppo. Il martirio durò due ore e noi potemmo vedere dalla finestra i due disgraziati che si divincolavano dagli spasimi. Motivo: avevano preso una vecchia stagna di petrolio e l'avevano portata nella loro capanna per lavarcisi.

13. Caso G…
Il prigioniero G… fu percosso in viso da Venère così brutalmente che gli enfiò un occhio e gli rimase nero per
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più settimane. Questo prigioniero era giunto ad Abomé dal Camerun insieme ad altri prigionieri nel febbraio del 1915. Venère lo percosse collo scudiscio semplicemente perché all'arrivo, nel momento dell'ispezione, non mostrava i suoi indumenti con bastante rapidità.

14. Caso G…
Il marinaio G… si buscò tre o quattro scudisciate sui piedi nudi perché preferiva andare scalzo piuttosto che infilarsi le pantofole fatte di pelle di vacca non conciata, e che gli rovinavano tutti i piedi.



2. Viaggio verso la Francia.
Nel trasporto dal Marocco alla Francia a bordo del vapore "Chaujia" noi altri malati, circa 125 uomini, fummo stabbionati [sic] in una stiva completamente oscura e senza un'apertura per la circolazione dell'aria. Per riposarci dovemmo coricarci sulle nude tavole. Durante il giorno ci fu permesso, di quando in quando, di uscire per sfogare i nostri bisogni. Durante la notte dovevamo sfogare i nostri bisogni corporali in un secchio che trovavasi nella stiva da noi occupata. Siccome molti erano affetti da dissenteria e da mal di mare, il soggiorno in quel vano, buio e privo d'aria, era insopportabile. Quattro giorni e quattro notti eterni durò il supplizio, specialmente funesto ai malati gravissimi… Durante questa traversata alcuni prigionieri furono maltrattati da soldati indigeni…
Firmati: F. St… O. F… O. M…
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Allegato No. 12.
Estratto dalla deposizione fatta il 21 ottobre 1916 all'Ufficio delle Colonie dell'Impero, dal volontario portaferiti delle truppe coloniali del Camerun, M. Pokora; e confermata con giuramento davanti al R. Tribunale di Gnesen, il 29 dicembre 1916.
Gnesen, 21 ottobre 1916.
Al Comando delle Truppe coloniali (Ufficio delle Colonie dell'Impero)
Berlino.

A bordo dell'"Asie" e a Mediouna.
Il 5 luglio 1915 lasciammo Abomé e fummo trasportati il giorno dopo a Cotonou a bordo del vapore "Asie". Qui rimanemmo rinchiusi per tutto il tragitto in una stiva di carico. Per una sola metà dei prigionieri vi erano brande; gli altri dovettero sdraiarsi sul nudo legno, e riparati a mala pena, e non tutti, da una misera coperta. Il 17 luglio arrivammo a Casablanca. Quando lasciammo Dahomé ci dissero che saremmo stati condotti in un sanatorio nel Marocco, e ci si può ben figurare quanto grande fosse la nostra delusione. Il nostro campo era in una vecchia fortezza circondata da una muraglia alta 7 metri; l'anticorte era pure circondata da un muro alto 4 metri. Abitavamo qui
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in tende rotonde. Dopo 9 mesi di prigionia era la prima volta che, finalmente, ricevevamo un pagliericcio! In questa fortezza le punizioni venivano scontate nella cosiddetta "fossa della legione straniera", e, più tardi, nelle prigioni. I teli da tenda venivano messi a spiovente e assicurati a terra per mezzo di corde e di pali. I puniti dovevano starsene qui dentro sdraiati, perché i teli erano stesi a poca altezza da terra e non permettevano che si potesse stare a sedere e tanto meno seduti. Il cibo era scarso e insufficiente per la maggior parte dei prigionieri, costretti a gravi e faticosi lavori. Soldati della Sanità dovettero sobbarcarsi a qualsiasi lavoro. I soldati addetti alle cave di pietra ricevevano una mercede di 10 centesimi al giorno. Il nostro stato di salute non trovò qui nessun miglioramento. Febbri di malaria e dissenteria erano all'ordine del giorno e non mancarono nemmeno i casi di febbri biliari-emoglobinuriche seguite da morte. Il comandante dal nostro accampamento, capitano Bidot, sentenziò un giorno che i malati dovevano aver preso a bello studio qualche medicina per provocarsi la febbre. Con questa idea fissa in testa (molti ritenevano che fosse invece effetto del più sfacciato cinismo e della più raffinata crudeltà) non vedeva mai di buon occhio i malati di febbri e li faceva lavorare anche quando la loro temperatura era salita a 38,5. Quando venne la visita di una commissione svizzera egli fece mascherare la cucina e appendere ad una parete due maiali macellati perché dessero l'idea dell'abbondanza, ma non appena i signori della commissione se ne furono andati, i due maiali sparirono nelle cucine dei soldati francesi.


Firmato: C. M. Pokora,
Portaferiti volontario nelle truppe coloniali del Camerun.
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Allegato No. 13.

Estratto dal rapporto del commerciante F. R…

…Qualsiasi funzione o cerimonia religiosa era severamente proibita, e nemmeno il giorno di Natale potemmo aver il permesso di ascoltare la Messa. In compenso ci rovesciavano addosso torrenti di volgarissimi vituperi e ci sottoponevano a feroci maltrattamenti fisici e morali. I nostri martirizzatori non erano sempre europei; ma, sovente, anche negri ai quali dovevamo prestare i più umili servigi…
Firmato: F. R…,
commerciante.
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Allegato No. 14.
Estratto dal rapporto del prigioniero K…
Maltrattamento di malati ad Abomé.
Nel maggio del 1915, il sottoscritto, insieme ai prigionieri B…, P… e C…, fu mandato dal comandante del campo di Kandi a Cotonou per essere ricevuto in quell'ospedale, perché affetto, al par degli altri, da dissenterie. Questo passaggio all'ospedale ci era stato comunicato a voce tanto dal comandante Graziani come dal sergente Vergnaud. Oltre a ciò mi fu consegnato, mentre stavo per partire, un documento, secondo il quale, come lessi io stesso, avremmo dovuto essere accolti tutti non nell'ospedale di Cotonou ma in quello del campo di concentrazione di Abomé. Giunti alla stazione di Bohikou, per evitare errori, pregammo un soldato di informarsi se non si trattava di un errore. Il soldato ritornò poco dopo insieme all'aiutante Venère, venuto alla stazione per prenderci in consegna. Il quale, esclamando: "Ah, quatre bêtes sont arrivées!", ci affibbiò alcuni colpi di staffile in mezzo alle risate sgangherate dei neri che si trovavano alla stazione. (Il prigioniero B… oltre che scudisciate si ebbe anche più pugni nel petto e in faccia). Ci intimò quindi di caricare le nostre valigie su due vagoncini della ferrovia a scartamento ridotto, e di spingerli fino ad Abomé distante di là 9 chilometri. Gli consegnai allora il documento, secondo il quale avremmo dovuti essere accolti nell'ospedale perché malati; e gli feci osservare che il nostro
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stato era tale da non permetterci di spingere i vagoncini per un tratto così lungo. Venère sogghignò allora alla sua usanza; e, udita che ebbe la parola "malati", per tutta risposta ci intimò di caricare nei vagoncini dei sacchi di riso del peso, in tutto, di 10 tonnellate. Perché compissimo l'operazione con speditezza, ci andava fustigando collo staffile. Ci ordinò, poi, di spingere i vagoncini, punzecchiandoci continuamente e malmenandoci con pugni e collo scudiscio. Prima di giungere a destinazione ci disse che se avessimo anche tentato di entrare nell'ospedale ci avrebbe fatto mettere i "serrapollici" ("poucettes"), ci avrebbe bastonati di santa ragione dentro la prigione, e mandati a spaccare i sassi (casser des cailloux). Perché comprendessimo meglio, accompagnava le parole con eloquenti gesti della mano. Diede quindi l'ordine ai soldati di trattarci come i selvaggi (traitez les cochons comme les sauvages) e di farci venir la sveltezza colla punta della baionetta. Dati gli ordini e avuta risposta affermativa dai negri, partì.

Nel viaggio dalla stazione di Bohikou ad Abomé dovemmo spingere per 9 chilometri 2 vagonsini [sic] nelle ore del mezzogiorno con 45° di caldo. Gli infuocati raggi del sole ci fiaccavano e la via era in salita e ci obbligava a fatiche superiori alle nostre forze. Qualche momento cercammo di soffermarci per riprendere fiato, ma i negri ci erano subito sopra con inaudita ferocia. Dopo 3 ore di martirio, giungemmo finalmente nel campo di concentrazione di Abomé. Memori delle terribili minacce di Venère, non avemmo il coraggio di domandare di essere ricoverati nell'ospedale. Soltanto il compagno C… volle essere visitato dal medico, perché si sentiva morire. Il giorno dopo Venère, che pur aveva appreso dal documento, anche se non la sapeva leggere dai nostri volti, che eravamo malati e bisognosi
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di pronte cure e di riposo, ci mandò a lavorare; e noi dovemmo, al bollente sole equatoriale, demolire un robusto muro, sempre incitati e punzecchiati dagli aguzzini. Il giorno seguente, il compagno B… fu accettato nell'ospedale, e noi altri dovemmo ritornarcene al duro ed ingrato lavoro.

Firmato: K…
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Allegato No. 15.
Estratto dal rapporto del prigioniero K. F…

Il 4 luglio 1915 ebbero finalmente termine gli inenarrabili dolori di Abomé, perché l'accampamento fu soppresso. … Imbarcati nel vapore "Asie" sbarcammo dopo un viaggio di 17 giorni a Casablanca. Durante il viaggio fummo ricoverati tutti – eravamo 150 uomini – in una stiva di carico. Ma questa era troppo piccola e troppo stretta per tutti noi, di modo che ci stavamo serrati e stretti come le aringhe. Non ci potevamo muovere nemmeno per prendere il rancio, il quale doveva essere passato di mano in mano. Il calore tropicale ci ammazzava, perché per tutta la durata del viaggio – 17 giorni! – non ci fu permesso mai di andare sopra coperta e di prendere una boccata d'aria fresca. Se arrivammo vivi, fu proprio un miracolo. Il rancio ci fu portato nella stiva di carico, in secchi. È vero che, di quando in quando, aprivano il boccaporto perché non scoppiassimo, ma questo non bastava per rinnovare l'aria del nostro canile. Nell'agosto del 1915 fui mandato cogli altri a Mediouna, dove dovetti sobbarcarmi a durissimi lavori in una cava di pietre, per quanto io fossi un prigioniero civile e non militare, non avendo appartenuto mai, nel Camerun, alle truppe coloniali. Né qui né ad Abomé fu fatta una differenza fra prigionieri di guerra e prigionieri civili. Nel maggio del 1916 fui trasportato a Marsiglia a bordo del vapore "Chaujia". La traversata durò 5 giorni soltanto, ma questi 5 giorni furono i
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più orribili della mia prigionia.
Circa 120 prigionieri vennero ammassellati, fitti come le sardine, in una stiva di carico che non aveva nessuna apertura, se si eccettua un foro nel soffitto, al quale era praticata una scaletta. Per la ventilazione e la luce, nulla! Siccome i prigionieri dovevano soddisfare i loro bisogni corporali in questa tomba ove trovavansi dei secchi appositi, e considerato che molti disgraziati affetti da dissenteria erano costretti a far uso sovente dei secchi, l'aria era irrespirabile e il caldo soffocante. Durante il giorno chi voleva uscire da quell'antro per recarsi alla latrina, doveva, volta per volta, esser seguito e scortato da un negro. Or avveniva che i negri, seccati di dover accompagnare continuamente alle latrine i malati di dissenteria che continuamente domandavano di andarci, si piantavano all'apertura della scaletta, e di lì ricacciavano nella stiva a colpi di calcio del fucile tutti quelli che cavavan la testa fuori supplicando di esser condotti alla latrina. In questo antro d'inferno noi dovemmo dormire sul nudo pavimento tutto lordo di morchia, di olio e di altri sudiciumi, che ci ridussero più lerci degli spazzacamini. Impossibile procedere ad abluzioni. L'acqua da bere ci fu fornita in misura insufficiente. Sei signore provenienti dal Togo furono trattate allo stesso modo indegno di noi.

Firmato: K. F….
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Allegato No. 16.
Estratto dal rapporto del commerciante T. F…

Viaggio per la Francia.

Nel marzo del 1916 fummo imbarcati a Casablanca nel vapore "Chaujia" che ci portò fino a Marsiglia. Fummo collocati in una stiva di carico nella quale non penetrava nemmeno un filo d'aria, e dovemmo dormire sul nudo legno tutto imbrattato di grassi e di altre lordure, senza che ci fosse data nemmeno una coperta. I malati di dissenteria dovettero, nella prima notte, sfogare i loro bisogni corporali in un angolo della stiva; la seconda notte vi fu messa una bigoncia che doveva fare le funzioni di latrina. Durante il giorno, in una certa ora stabilita, era permesso di recarci in alto alle latrine.
I malati gravi per febbri, rimasero, malgrado le nostre vive proteste, senza nessunissima cura medica nella stiva; mentre noi avemmo il permesso di recarci nel pomeriggio sopracoperta un'ora per prendere aria. La situazione pietosa dei malati divenne ancor più terribile quando furon presi da forze di stomaco per il mare in tempesta.
Durante il viaggio che facemmo a bordo del vapore "Asie" dal Dahomé al Marocco, fummo fatti segno ad orribili
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maltrattamenti da parte dalla canaglia di bordo che veniva a vederci e schernirci, e da parte dei soldati. Siccome eravamo ammassellati nella stiva come le aringhe, non potevamo nemmeno scostarci quando ci buttavano addosso dal boccaporto ogni sorta di lordure; e non potevamo evitare gli sputi che ci piovevano da tutte le parti…
Firmato: T. F…,
commerciante.
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Allegato No. 17.
Estratto dal rapporto del sotto capo-stazione Scharck, proveniente dal Togo.

A bordo del vapore "Amiral Fourichon"
in viaggio da Cotonou a Bordeaux,
13 luglio 1915.

…Mentre scontava una punizione, il commerciante R… fu tolto, un giorno, di carcere e condotto davanti a Venère per una revisione. Ritornò colla faccia rossa e coi "serrapollici" che dovette tenere tutta la notte. Era quasi divenuto nero in faccia dagli strazi che doveva sopportare. Mi disse che Venère l'aveva percosso ripetutamente in viso.
Un altro giorno il padre missionario cattolico Alphons, proveniente dal Camerun, fu rinchiuso nella mia stessa prigione, e questo perché il motore della motocicletta del medico francese era esploso. A padre Alphons, che era un bravo montatore, avevano comandato di riparare la motocicletta, ciò che fece con vera maestria. Senonché, essendo esploso il motore, egli fu senz'altro punito con 8 giorni di arresto; e questa fu la ricompensa per il suo lavoro… Il sergente Vergnaud che lo condusse in prigione ad Abomé, gli fece una perquisizione e gli trovò un pezzetto di pane ed un breviario. Il pane fu gettato nel cortile e il breviario ridotto dal sergente in mille pezzi e dispersi nel cortile, con evidente ed intenso do-
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lore del padre Alphons.
Questo medesimo sergente aveva avuto prima sotto di sé il campo di concentrazione di Kandi…

Ad Abomé avvennero davvero cose da far rizzare i capelli.
Firmato: W. Scharck,
Sotto capo-stazione nel Togo, e sergente della milizia mobile II.
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Allegato No. 18.
Estratto dal rapporto del sottufficiale W. Neckel; confermato con giuramento davanti al Tribunale militare di Amburgo.

A bordo del vapore "Asie" e a Mediouna.

Fummo ricondotti a Cotonou e imbarcati a bordo dell'"Asie", dove fummo rinchiusi in una stiva di carico così piccola che non potevamo stendere nemmeno i piedi. Il calore era insopportabile, il cibo era troppo scarso e cattivo. A Mediouna il trattamento e il rancio furono un po' migliori che ad Abomé. Fummo adibiti, per la maggior parte, alla costruzione delle vie. I Francesi ci facevano scontare le punizioni rinchiudendoci in tende bassissime; tanto basse che non potavamo starvi nemmeno a sedere. Al condannato veniva data una coperta; e per tutti i giorni della punizione, doveva starsene sotto quella tenda, che somigliava ad un canile, al caldo, al freddo e alle intemperie. Il trattamento medico nel Marocco fu indegno. Chi si dava malato veniva considerato, senz'altro, un simulatore. Il medico, generalmente, diceva di non riscontrare malattia; e il malato veniva severamente punito.
Firmato: W. Neckel,
sottufficiale della riserva.
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Allegato No. 19.
Estratto dal rapporto del prigioniero di guerra B….
Ad Abomé.
I sottufficiali B… e K…, nonché il soldato della riserva E… e il prigioniero civile P…, mandati all'ospedale di Abomé perché affetti da dissenteria grave, furono ricevuti, come sempre, alla stazione di Bohikou dall'aiutante Venère, che li colpì violentemente collo scudiscio sull'elmo dei tropici avendovi scorto una coccarda tedesca. Lacerata che ebbe la coccarda, calò un diluvio di scudisciate sulla schiena del malcapitato. Dovemmo quindi caricare certi vagoncini che scorrevano su un binario a scartamento ridotto, riempirli di sacchi pesantissimi, e poi spingerli per tutta la via che dalla stazione conduce ad Abomé, 9 chilometri lontano. Erano le ore 2 pomeridiane quando cominciammo a spingere i vagoni, e il sole bruciava come se si fosse stati in un forno. Avendo fatto osservare che noi eravamo malati, l'aiutante ci rispose: "Per vostro bene vi faccio sapere che le malattie si guariscono nell'accampamento con una medicina che fa miracoli e che si chiama "serrapollici". – Durante il percorso ci flagellò continuamente col suo staffile. Specialmente il povero E… rimase malconcio, perché soffrendo di ernia inguinale; e, non possedendo un cinto erniario non poteva spingere il vagone come gli altri.
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L'appuntato commerciante K…, proveniente dal Togo, si ebbe, al suo arrivo ad Abomé, scudisciate così violente e crudeli, che le cicatrici lunghe mezzo metro erano visibilissime nelle spalle anche quando fummo condotti al Marocco al principio del 1916.
Il soldato della riserva L… fu sottoposto a sevizie speciali ed oltremodo infami. Il crudelissimo Venère gli applicò prima i "pollici", poi lo costrinse a camminare carponi colle mani così impedite; e, finalmente, cominciò, come diceva lui, a "maturarlo", menando il flagello con una mano e con quell'altra tenendogli la rivoltella spianata davanti al viso. Il prigioniero P…, proveniente dal Camerun, pochi minuti dopo che gli ebbero messo i "pollici", fu, per gli atrocissimi dolori, preso da cardiospasmi e stramazzò al suolo. Allora l'aguzzino Venère gli fu sopra; e, tempestandolo di calci e ricoprendolo delle più sudice parole da trivio, cercò di farlo rizzare in piedi. Visto che il tormentato aveva perduto i sensi, un soldato andò a prendere una zucca d'acqua e gliela versò nella testa. Finalmente gli furono tolti i barbari ordigni.
Si ebbero casi in cui i poveri martiri dovettero tenere i "serrapollici" per 12 ore consecutive.
Durante il lavoro avevamo sempre alle costole i soldati neri armati di bastoni e di randelli; essi, per ordine dell'aguzzino Venère, battevano senza nessuna misericordia sui nostri corpi, come se avessero picchiato in terra; e questo ogni volta che un prigioniero prendeva respiro o si ergeva sulla schiena. Un martirio tutto speciale durante l'estirpazione delle erbacce
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consisteva appunto nel dover stare continuamente curvi sulla schiena senza piegare i ginocchi, il che determinava, dopo breve tempo, dolori acutissimi nei muscoli peronieri. Quando un disgraziato sospendeva il lavoro anche per un secondo, i negri gli erano addosso con furibondi colpi di bastone. Così aveva ordinato Venère e così facevano.
I maltrattamenti non potevano essere sopportati dai più deboli, e molti stramazzavano a terra. Dovevamo portarli a braccia all'ospedale. Molti europei internati ad Abomé, specialmente i marinai delle navi tedesche sequestrate a Duala, non avevano abiti. Alcuni si coprivano la metà del corpo con stracci di sacco cuciti. Mancando qualsiasi calzatura molti soffrivano di suppurazioni ai piedi, provocate dalle orribili pulci dette della sabbia.
Essendo venuta, un giorno, una commissione composta di alti ufficiali francesi, il sottufficiale S…, il furiermaggiore K… e il sergente B… protestarono per i maltrattamenti subiti e narrarono l'atroce vita che i prigionieri dovevano menare ad Abomé. Partita la commissione i primi due si buscarono 30 giorni e il sergente B… 60 giorni di arresti. Per 8 giorni fu tolto il pane a quasi tutti. I puniti d'arresto furono rinchiusi più volte in prigioni strettissime, insieme ad indigeni d'ambo i sessi.
Firmato: B…
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Allegato No. 20.
Estratto dal rapporto di F. R…
Durante i 9 mesi della nostra prigionia nel campo di concentrazione di Abomé, vennero alti ufficiali francesi soltanto tre volte per procedere ad ispezioni. La prima ispezione, che ebbe luogo dopo circa 4 mesi, e più precisamente nel gennaio del 1915, si svolse nel modo che segue:
L'interprete andò di capanna in capanna per far sapere ad ognuno che "il giorno dopo un alto ufficiale francese avrebbe visitato l'accampamento; che era severamente vietato di dire checchessia; di rivolgergli la parola, e, soprattutto, di presentare proteste; che qualsiasi trasgressione a tale divieto sarebbe stata severamente punita, che non avremmo ottenuto nulla e la nostra posizione nel campo sarebbe, anzi, peggiorata. L'interprete aggiunse di suo "che ci guardassimo bene dal presentare qualsiasi reclamo perché l'aiutante Venère ce l'avrebbe fatta scontare amaramente". Anche Venère, da parte sua, aveva tenuto, a un di presso, i medesimi discorsi coi prigionieri che lavoravano fuori dell'accampamento, prospettando le più raccapriccianti pene e le più atroci rappresaglie per tutti quelli che avessero osato aprire la bocca. Concluse assicurando di avere ordinato grandi derrate di riso e di legumi, e che, se i prigionieri si fossero comportati a dovere, avrebbero ricevuto, da allora in poi, un cibo più abbondante e più sostanzioso.
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Il giorno seguente non fummo mandati al lavoro. Fu fatta pulizia nel campo e nettate le capanne e il cortile. Verso le 9 ½ arrivò l'ufficiale ispettore; attraversò l'accampamento, entrò nell'ospedale e in cucina, e visitò ogni singola capanna. Ognuno di noi stava in piedi accanto alla stoia di giunco che serviva da giaciglio la notte. Dopo aver guardato ancora i locali nei quali abitava l'aiutante Venère, l'ufficiale abbandonò l'accampamento accompagnato dal medico dottor Longharé, senza aver barattato nemmeno una parola con nessuno dei prigionieri. Il pomeriggio fummo rimandati al lavoro. Nei giorni seguenti non vi fu il benché minimo cambiamento nell'andazzo del campo e, inutile dirlo, di tutte le promesse fatte da Venère relative al vitto, non ne fu mantenuta una.
Alcune settimane più tardi venne un altro ufficiale; un maggiore o un colonnello. Anche questa volta il solito ritornello a base di intimidazioni per chi avesse ardito fiatare in fatto di maltrattamenti, sevizie e sul complesso della vita miserabile che eravamo costretti a menare. Comunque, deve essere pervenuto agli orecchi dell'interprete, e per mezzo suo – che andava a rifischiare tutto – anche agli orecchi di Venère, che questa volta non eravamo disposti a farci burlare come la prima, e che, in un modo o in un altro, avremmo presentati i nostri gravi reclami. Infatti, pochi minuti prima che avesse luogo l'ispezione dell'ufficiale francese, ci fu detto che, dopo l'ispezione stessa, chi avesse avuto da presentare reclami sarebbe stato chiamato nell'ufficio. Ma era, come si vedrà, una chiapparella; uno stratagemma per indurci a tacere. L'ufficiale apparve. Noi facemmo capannello in uno dei cortili. L'ufficiale, accompagnato da un aiutante e dal medico andò nel mezzo del cortile,
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noi ci mettemmo in linea, egli ci guardò ad uno ad uno senza rivolgerci la parola ma solo confabulando col medico, e poi ci fecero andare alle nostre capanne. Visitato che ebbe l'accampamento, l'ufficiale andò all'ufficio accompagnato dai francesi. Noi aspettammo invano la chiamata per presentare i nostri reclami. Dopo qualche tempo vedemmo l'ufficiale uscire, attraversare, sempre accompagnato dagli altri francesi, il cortile, ed abbandonare l'accampamento. In quel momento, indovinando la burla atroce, il compagno F… si avvicinò a Venère e gli disse che alcuni di noi avrebbero desiderato di parlare coll'ufficiale. Venère fece un gesto colla mano per imporre al prigioniero di ritirarsi e per impedire che si facesse scorgere dall'ufficiale; ma il nostro compagno non si lasciò intimidire e seguì il gruppo di alcuni passi, alzando la voce finché l'ufficiale non si fu voltato. Il ghiaccio era rotto. Il prigioniero F… si fece avanti e pregò l'ufficiale di volerlo ascoltare. Quegli si fermò e, con lui, tutto il gruppo. Compreso subito che si trattava di reclami fece chiamare innanzi a se i prigionieri più anziani del campo, i camerati W…, M… e K…, perché dessero informazioni di carattere generale. A questi tre prigionieri se ne aggiunsero altri due che avevano da presentare proteste di carattere personale. Come ci riferirono dopo i nostri camerati più anziani, essi aprirono il sacco e raccontarono tutto, protestando in modo speciale contro i maltrattamenti e le sevizie. L'ufficiale aveva ascoltato e promesso che avrebbe rimediato a tutto. Aggiunse che avrebbe fatto di tutto perché fosse inviata una quantità maggiore di farina e perché potessimo ricevere il pane regolarmente. Ai lamenti contro la piaga delle zanzare che causavano le febbri malariche, promise che avrebbe fatto venire dalla Francia
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un numero sufficiente di zanzarieri. Abbandonò quindi l'accampamento accompagnato dal medico.
Era trascorsa appena una mezz'ora dalla sua partenza allorché i tre anziani del campo furono rimossi dalle mansioni di preferenza che disimpegnavano. Dovettero quindi presentarsi subito armati di piccozza e di pala; e, accompagnati da un nugolo di soldati negri, condotti fuori dell'ambito del nostro accampamento per compiere gravi lavori di sterro. Tutti e quattro venivano rinchiusi in prigione nelle ore della pausa del mezzogiorno e durante la notte. Venère ci fece sapere che il compagno F…, che per il primo aveva richiamato l'attenzione dell'ufficiale, sarebbe stato condito per le feste e in modo da non tornargliene più voglia. I lavori gravi durarono 8 giorni. Uno di questi quattro disgraziati, che era stato "maturato" a scudisciate dal sergente Castelli nel giorno stesso delle proteste, si ammalò poco dopo di febbri malariche e dovette essere fatto passare dalle prigioni all'ospedale; anche il compagno F… chiappò febbri malariche di carattere oltremodo maligno.
La terza ispezione dell'accampamento da parte di un alto ufficiale francese ebbe luogo il 19 maggio. In quella stessa mattina – coincidenza davvero strana – giunsero gli zanzarieri, i quali ci furono distribuiti, con inusitata prontezza, pochi minuti prima che avesse luogo l'ispezione. Nelle ultime settimane precedenti erano giunti ad Abomé altri 80 prigionieri dal Togo, di modo che il numero dei tedeschi in quel campo era salito a 300. Dall'aprile trovavasi in mezzo a noi anche il medico tedesco dottor Zupitza. Anche questa volta non mancarono i soliti avvertimenti; guai a chi avesse protestato! Il giorno
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avanti ci avevano detto che ci presentassimo coll'abito pulito, perquanto non possedessimo altri indumenti che l'uniforme tutta lacera e strapanata che avevamo indosso al momento della cattura.
Prime che entrasse nel cortile l'ufficiale d'ispezione, ci fecero disporre in quadrato, rimanemmo oltremodo sorpresi al vedere che i francesi passavano in su e in giù senza l'indivisibile scudiscio e che i negri prestavano servigio senza i nodosi randelli e non erano nemmeno armati di fucile. Questi ed altri stratagemmi, specialmente in cucina, nell'ospedale e altrove, dovevano far credere all'ufficiale ispettore che fossimo trattati con umanità e larghezza. Avvenne, infatti, quel che avvenne. L'ufficiale, uscito dalla cucina dove aveva assaggiato un rancio degno veramente di lode, ci fece sapere che potevamo essere contenti perché eravamo trattati meglio, molto meglio, dei nostri compatriotti prigionieri in Francia. Dopo questa antifona aggiunse che chi aveva da dire qualche cosa si facesse avanti. Noi altri prigionieri provenienti dal Camerun ci guardammo bene dal fiatare, perché, ormai, avevamo capito il metodo e sapevamo che non solo non avremmo ottenuto nulla né per noi né per i nostri compagni, ma che saremmo andati incontro a pronte e gravi sevizie. Alcuni prigionieri catturati nel Togo, fra cui i camerati P… e B…, invece, fecero due passi avanti ed esposero le loro querele. Per ogni protesta, l'ufficiale aveva però una rispostina pronta, niente affatto soddisfacente.
Alla protesta del prigioniero P…, che al suo arrivo ad Abomé era stato scudisciato ferocemente, rispose che certe proteste non le accettava nemmeno, e gli intimò di rientrare nella fila.
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Alle lagnanze del prigioniero B… per essere stato flagellato e percosso a sangue da Venère e dai suoi tirapiedi, l'ufficiale fece avanzare Venère, il quale rispose che il querelante si era rifiutato di spingere un vagoncino carico di valigie. Allora l'ufficiale concluse, rivolto al querelante, che, se lo avevano percosso, se l'era meritato. Questi insisté osservando come molte altre volte, lui ed altri, erano stati flagellati senza nessunissima ragione al mondo. L'ufficiale baratta allora alcune parole rapide con Venère, poi scuote la testa e rimanda il prigioniero B… in riga cogli altri.
Si fece quindi avanti il prigioniero R… che consegnò all'ufficiale una protesta scritta nella quale enumerava le atrocità commesse da Venère e dai soldati bianchi e neri sui prigionieri: scudisciate, pugni, calci, "serrapollici ", ecc. ecc. L'ufficiale getta uno sguardo nella protesta e se la mette in tasca. Nient'altro.
Altri prigionieri, incoraggiati, si fecero avanti, chi con un lamento, chi con un altro. Per tutti l'aiutante Venère aveva paroline speciali pronunciate rapidamente e sommessamente all'ufficiale ispettore, il quale diceva di "sì" e faceva rientrare i protestanti in riga. Poco dopo fummo rimandati tutti alle nostre capanne e l'ufficiale abbandonò il campo.
Ecco quali furono le conseguenze delle proteste:
"I prigionieri ricoverati nelle capanne 1 e 5 saranno sottoposti a lavori più lunghi e più gravi di quelli che compievano sin qui, con vigilanza raddoppiata, perché alcuni di loro hanno ardito presentare proteste contrariamente al divieto al
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riguardo. I querelanti, poi, – i prigionieri K…, B…, R…, Sch…, M… e L… – sono mandati, oltre a ciò, per 15 giorni agli arresti. Tutti saranno privati del pane. Tutti quanti i prigionieri del campo, nessuno escluso né eccettuato, saranno privati del tè, del caffè e dell'acqua bollita."
Un giorno l'interprete ci disse che lo stesso governatore generale di Dakar aveva ordinato che i prigionieri tedeschi catturati nelle colonie fossero sottoposti a trattamento severissimo. Dopo un mese di soggiorno nel campo di Abomé, Venère ci fece sapere ufficialmente, per mezzo dell'interprete, "che non avevamo diritti alcuni; che eravamo prigionieri di guerra e che, di noi, il Governo francese avrebbe potuto fare ciò che meglio gli aggradava."
Il tenente Bernard, il superiore di Venère, sapeva benissimo che eravamo sottoposti ad atroci sevizie, ma non muoveva mai un dito per impedirne il ripetersi. Alla sua venuta non si ebbero mutamenti di sorta; anzi, appunto i prigionieri del Togo che arrivarono, si può dire, insieme a lui, furono tormentati da Venère ancor più barbaramente degli altri a colpi di staffile, di bastonate e coi "serrapollici". Il dottor Longharé fu sempre presente alle ispezioni dei vari ufficiali francesi. Egli non poteva ignorare le sevizie da noi continuamente sofferte, per la semplice ragione che era proprio lui a ricucirci, a incerottarci e a medicarci ogni volta che uscivamo dalle mani di Venère in stato compassionevole.

Firmato: F. R…,
commerciante.
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Allegato No. 21.
Estratto dal rapporto di H. K….
… Nei primi 15 giorni non ci fecero lavorare. Poi venne l'aiutante Venère in qualità di comandante del campo, e cominciò per noi, allora, un tempo di inauditi spasimi…
Dapprincipio dovemmo estirpare dai dintorni e colle sole mani tutte le liane, erbacce e spini che crescevano nei luoghi paludosi. Durante il duro lavoro era vietato di barattarci ancora una parola, e, quel che è peggio, di piegare i ginocchi, pur dovendo star curvi… Il primo ad esser martoriato fu il prigioniero K…
Stavamo sradicando gramigne e liane quando il compagno K…, indolenzito per essere stato lungamente curvo, si raddrizzò sulla vita. Un negro gli fu sopra con un subbisso di urlacci e parolacce di cui il prigioniero – naturalmente – non comprese verbo. Egli era ben lungi dal sospettare di aver commesso un grave delitto per essersi semplicemente raddrizzato sulla vita e non poteva, quindi, nemmeno indovinare cosa voleva quel malnato di negro. Il quale, colla bava alle labbra dalla grande ira, andò nell'accampamento e ritornò accompagnato dall'aiutante Castelli che teneva lo scudiscio in una mano e un paio di "serrapollici" nell'altra. Senza tanti discorsi li applicò al disgraziato che cominciò a gridare dagli atroci spasimi. Per farlo tacere il negro gli andava inferendo forti colpi nei fianchi col calcio del fucile. Il Castelli ordinò, quindi, che il "reo" fosse rinchiuso per 8 giorni in prigione.
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Il secondo a subire le infami sevizie fu il prigioniero W… Per aver chiesto una presa di sale al capo-cuoco nero, fu deferito all'aiutante il quale venne, ubriaco, armato di staffile; e, con questo, percosse reiteratamente e con tutta la sua forza il prigioniero, pronunciando nel contempo insulti triviali e bestemmie. Gli applicò quindi i "serrapollici" e gli fece attraversare Abomé a calci nel sedere. L'amministratore del campo confermò la pena e vi aggiunse 8 giorni di carcere facendo sapere al punito, per mezzo dell'interprete, che se le cose fossero andate come avrebbe desiderato, i prigionieri verrebbero finiti tutti a baionettate nella pancia.
Poco prima di Natale fui mandato ad eseguire alcuni lavori di fabbro-ferraio nell'officina dell'amministrazione. Con un pezzettaccio di ferro mi foggiai un coltellino per poter tagliare il pane ed altro. Un giorno mentre ci recavamo all'amministrazione, l'aiutante mi chiamò a sé, mi frugò nelle tasche, trovò il coltellino e mi fece condurre subito da 6 negri nel locale di arresto. In questo locale vi erano due negri in punizione… Dopo poco tempo la porta si aprì e, gesticolando e bestemmiando, entrò l'aiutante che cominciò a menar colpi da orbi collo scudiscio sui due negri. I colpi si sentivano cadere sulle nude carni dove lasciavano la traccia. Stancatosi colle mani cominciò a lavorar di piedi e ridusse i due negri in uno stato davvero pietoso. Poi uscì, improvvisamente. Supponendo che non sarebbe più ritornato, mi coricai in terra per riposarmi. Ma ecco che, inaspettatamente, quell'energumeno ritornò accompagnato da due robusti negri i quali mi saltarono alla gola prima ancora che io avessi potuto fare l'atto di alzarmi. L'aiutante era armato di scudiscio e teneva su di me il revolver spianato.
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I due negri mi strinsero le braccia e mi applicarono ai pollici l'ordigno infernale. Non posso descrivere gli spasimi atroci che dovetti sopportare: basterà dica che, in breve tempo, le punte dei pollici enfiarono in un modo pauroso e divennero paonazze. L'aiutante cavò allora il coltellino, me lo mostrò, e, pronunciando parole incomprensibili – un impasto di insulti e di bestemmie, cominciò a flagellarmi come aveva fatto avanti coi due negri. I suoi due tirapiedi neri ridevano sconciamente alle mie spalle; poi non udii più nulla e stramazzai al suolo privo di sensi. Non so quanto rimasi nello stato di incoscienza. Quando riaprii gli occhi ero solo. I dolori mi richiamarono subito alla mia pietosa condizione. Mi vidi le mani ancora strette nell'orribile ordigno. Il mio corpo era una piaga. Appuntando i piedi e strisciandomi colla schiena sulla parete riuscii ad alzarmi. La camicia era piena di chiazze sanguigne; la parte sinistra del capo gonfia per colpi ricevuti. Scalzo, coi piedi divorati dalle pulci della sabbia, col corpo che era tutto un dolore, attesi il ritorno dei miei carnefici. Due neri vennero a prendermi dopo qualche tempo; mi legarono due cordicelle alle braccia, una per braccio; e, facendomi attraversare il cortile, mi condussero dall'aiutante. Questi giunse insieme a due negri che reggevano una portantina. Lasciato il cortile si unirono al nostro gruppo altri due senegalesi colla baionetta inastata. L'aiutante entrò nella portantina ed attraversammo il villaggio di Abomé… Il sole scottava in modo indicibile e non potevano esser meno di 50° di calore. I maltrattamenti subiti mi avevano talmente abbattuto che, quasi, non potevo camminare. Ma l'aiutante, incitando i suoi tirapiedi colla voce; e, quelli, incitando me colla punta della baionetta, mi obbligavano non solo a camminare, ma a correre. Ad un certo punto, avendo ral-
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lentato e non reagendo nemmeno alle punzecchiature dei negri perché proprio mi sentivo morire, l'aiutante fece fermare la portantina, balzò fuori e si diede a percuotermi ancora collo scudiscio finché non mi fui rimesso in marcia a passo – secondo il suo parere – spedito. Gli abitanti negri, donne, uomini e ragazzaglia, chiamati a raccolta dallo spettacolo, ci avevano seguito per un pezzo fuori del villaggio. Molti sghignazzavano, specialmente i ragazzi; ma, in generale, nella faccia degli stessi negri potei leggere più compassione che scherno. Giungemmo finalmente alla sede dell'amministrazione dove mi sentii pronunciare la condanna di 8 giorni di carcere per aver voluto, con quel coltello, nientemeno, assassinare l'aiutante. Otto giorni di carcere per un tentato assassinio!
Ma non tutti i francesi di Abomé erano belve. Quando il segretario dell'amministrazione venne nella mia prigione per svitarmi finalmente i serrapollici, mi sorresse amorevolmente sotto le braccia; e, quando io, sorpreso di quella mossa inaspettata, lo guardai in volto, lessi nei suoi occhi l'espressione di una sconfinata pietà per le sevizie da me patite. Nei suoi occhi avevo letto bene. Più tardi, infatti, appresi da altri camerati che quell'uomo aveva mostrato la sua pietà a molti altri tormentati; e, colto il destro, aveva detto a più d'uno che gli scoppiava il cuore a vedere quelle infamie; che avrebbe fatto, se avesse potuto, chissà che cosa per noi, ma che non poteva far nulla, purtroppo, senza correre egli stesso grave pericolo. Fu lui che fece spazzare la mia cella dove era stato prima di me un vecchio negro affetto da malattia contagiosa. Mi fece portare, poi, da un negro, una catinella d'acqua perché mi potessi lavare le ferite. La camicia si era attaccata alla schiena a
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causa del sangue rappreso. Il negro mi aiutò a togliermela, e, quando mi vide le spalle nude, nemmeno lui abituato a tali orrori, poté trattenere la sua meraviglia. Ero tutto una piaga… Senza coperta, vestito soltanto di pochi stracci, mi coricai sulla stoia, prono perché le spalle mi doloravano atrocemente. In questa posizione scontai i miei 8 giorni, durante i quali, pulci della sabbia, pidocchi, zanzare e perfino grossi ramarri, scorpioni e serpentelli, venivano a punzecchiarmi durante la notte…
Cominciai a dimagrire a vista d'occhio e in modo pauroso. Da 74 chilogrammi calai fino a 46. Ma anche in questo stato di straordinaria magrezza dovetti sobbarcarmi a lavori gravi… Il vitto scarso e senza sostanza contribuiva ad aumentare la nostra debolezza.
Un giorno l'aiutante mise in prigione il camerata W…, e andò a mettergli i "serrapollici". Mentre il paziente si divincolava fra gli spasimi, quegli estrasse un'ocarina e cominciò a suonare una canzonetta francese. Il martirizzato perdette i sensi e l'aiutante lo fece ritornare in sé a forza di frustate.
Un altro giorno fece venire il medesimo prigioniero nella sua abitazione, lo mise alla parete e cominciò a fare esercizi di scherma con uno sciabolone da artiglieria, sempre toccando il suo petto colla punta della sciabola. Quando ebbe fatto il suo comodo ringraziò il prigioniero mandandolo via a scudisciate…
Non voglio tralasciare d'osservare che mi assumo la più assoluta responsabilità in quanto alla esatta verità del mio rapporto.

Firmato: H. K…
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Allegato No. 22.
Breve riepilogo di alcuni fra i tantissimi maltrattamenti compiuti dal Venère e suoi organi in sottordine.
1. Il prigioniero L… proveniente da Duala fu battuto così ferocemente in faccia che ne riportò la frattura dell'osso del naso e rimase deturpato per sempre. (Allegato 11.)
2. Il 17 dicembre 1914 il prigioniero L… dietro falsa delazione dell'interprete fu maltrattato barbaramente da Venère, dal Castelli e da alcuni soldati indigeni in presenza del comandante Beraud. Egli si ebbe pugni e colpi di bastone e di scudiscio nel viso, nella testa e nella schiena; fu quindi rovesciato a terra e "maturato" a taccate. Gli vennero infine applicati i "serrapollici" e stretti così maledettamente che le dita scoppiarono. Durante il supplizio Venère lo minacciava colla rivoltella. (Allegati 10, 11.)
3. Il padre missionario cattolico Alphons proveniente dal Camerun, incaricato di riparare la motocicletta di un impiegato francese si buscò 8 giorni di prigione perché il motore esplose. Nella perquisizione gli fu trovato addosso, dal sergente Vergnaud, un pezzetto di pane e un breviario. Il Vergnaud buttò via il pane e stracciò il breviario in mille pezzetti. (Allegato 17.)
4. Il 1°giugno 1915 un prigioniero fu da Venère scudisciato in faccia, nelle mani, nelle gambe; e dovette sotto-
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porsi alla tortura dei "pollici" per aver rotto involontariamente una lucerna indigena di terra cotta. (Allegato 4.)
5. Il prigioniero S… di avanzata età fu obbligato dai soldati neri a far mattonelle per quattro ore consecutive in ginocchioni. (Allegato 4.)
6. Al prigioniero L… furono applicati prima i "serrapollici", poi fu colpito ferocemente in faccia collo scudiscio dall'aguzzino Venère che gli teneva la rivoltella spianata in faccia. (Allegato 19.)
7. Un macchinista della linea di navigazione Woermann, si era, lavorando nell'officina del campo, foggiato un coltelluccio per tagliare il pane. Per questa mancanza si ebbe 8 giorni d'arresto, il supplizio dei "pollici" e tanti colpi di scudiscio finché il misero non cadde a terra privo di sensi. (Allegato 10, 11, 21.)
8. Al prigioniero P… furono avvitati i serrapollici così bestialmente che stramazzò al suolo privo di sensi, colpito da cardiospasmi. Quando Venère lo vide esamine cercò di farlo ritornare in se a furia di taccate. (Allegati 6, 8, 10, 19.)
9. Il prigioniero K… proveniente dal Togo fu rinchiuso l'11 febbraio 1915 insieme ad altri 5 camerati in una prigione nella quale avevano soggiornato i porci ed era piena di sterco. Nel pomeriggio di quello stesso giorno Venère lo percosse collo scudiscio sulle mani e nella schiena, in modo da lasciarvi orribili sugillazioni. Il paziente fu quindi costretto da un caporale nero, a furia di calciate di fucile, a vuotare colle mani le stagne di petrolio piene di escrementi dei malati di dissenteria. (Allegato 11.)
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10. Il 5 febbraio 1915 due prigionieri del Camerun, furono portati in guardina e là dentro applicate ad ognuno 15 staffilate. Venère ordinò, quindi, fossero condotti nella sua abitazione dove li seviziò lungamente con i "serrapollici", a scudisciate, a pugni ed a calci. Ritornando in guardina, i prigionieri furono costretti a camminare coi ginocchi. Colà giunti, i due infelici furono messi a fronte, attaccata ai due ordigni una catenella e a questa appesa un ceppo di legno del peso di due chilogrammi. I due pazienti dovevano tenere le braccia tese perché il ceppo non toccasse terra. Due negri armati di staffile tribbiavano a sangue sulle braccia quando queste si allentavano un po'. Il tormento durò circa due ore. (Allegati 10, 11, 19.)
11. Alcuni Tedeschi del Togo giunsero da Kandi alla stazione di Bohikou muniti di certificato di malattia che dava loro diritto di entrare nell'ospedale. Venère li ricevette coll'insulto: "Sono arrivate altre quattro bestie!" e li cacciò fuori del vagone a scudisciate in mezzo alle risatacce degli indigeni. Essi dovettero caricare i loro bagagli in vagoncini sul binario a scartamento ridotto, e spingerli per 9 chilometri di via ferrata fino al campo di Abomé. Perché un prigioniero osservò che non sarebbero stati in grado di compiere quello sforzo, Venère ordinò che caricassero sui vagoncini anche sacchi di riso per 10 tonnellate e li cacciò poi avanti a staffilate. Ordinò quindi ai soldati negri di trattarli come selvaggi e di punzecchiarli colla baionetta. (Allegati 7, 14, 19.)
12. Altri Tedeschi venuti da Kandi dovettero egualmente caricare i vagoncini e spingerli dalla stazione di Bohikou ad Abomé ad una temperatura che spaccava le pietre; mentre il
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Gianzelli li incitava a correre, lavorando di scudiscio, e i negri picchiando col calcio del fucile. Avendo un prigioniero anziano tentato di riposarsi dai colpi, un soldato negro, incitato dal Gianzelli, sfoderò la sciabola e gli inferse un tremendo colpo che gli aprì una orribile ferita nel capo. Grondanti di sudore e di sangue e mezzo svenuti, i prigionieri giunsero la sera nell'accampamento. (Allegato 4.)
13. Un giorno Venère ordinò che fosse spellata e squartata una bestia vaccina morta di carbonchio. La carne doveva esser portata in cucina e preparata per il rancio. Venuto, fortunatamente per tempo, da parte di un medico tedesco, il divieto ai prigionieri di cibarsi di quelle carni ammorbate, si poté evitare una grande sciagura; tuttavia sei prigionieri che avevano partecipato alla spellatura e allo squartamento della bestia infetta si ammalarono di pustole carbonchiose, uno dei quali con grave pericolo della vita. Quando il medico tedesco disse a Venère di far bruciare il ceppo nel quale era stata spezzata in cucina la carne ammorbata, Venère minacciò lo stesso medico di scudisciate osservando che non avrebbe dovuto immischiarsi in cose che non lo riguardavano. (Allegati 7, 13.)
14. Nel novembre del 1914 il prigioniero L… si ammalò di febbri malariche, febbri ittero-ematuriche e dissenteria. Nulla fu fatto per lui, e nemmeno il medico francese se ne curò. Mentre la febbre a 40° lo consumava, entrò Venère colla pretesa che il misero degente si alzasse e andasse a lavorare. Il poveretto tentò di obbedire e cercò di sollevarsi, ma ricadde privo di forze. Quel bruto, allora, lo rovesciò dalla stoia e lo percosse con un nerbo di bue. Poi lo ricoprì di calci e, finalmente, se ne andò. (Allegato 9.)…
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Allegato No. 23.
Estratto dal rapporto della signora Annie Voss, al Ministero delle Colonie dell'Impero il 19 settembre 1916; e confermato con giuramento il 13 dicembre 1916.

Schwerin, 19 settembre 1916
Al Ministero delle Colonie dell'Impero, Berlino.

Quando l'11 giugno fu soppresso il campo di concentrazione di Mediouna e fummo imbarcati, io ero, fra 450 viaggiatori, l'unica donna. Nessuno ebbe riguardo di me e del mio stato (ero incinta di 5 mesi). Dovetti dormire insieme ai prigionieri sulla nuda terra; per quattro giorni non potei né lavarmi, né pettinarmi, né spogliarmi. Il terzo giorno mi fu dato un pagliericcio dal nostro capo-convoglio, il comandante di Mediouna, il quale avrebbe fatto volentieri per me anche di più, ma non poteva. I due vani nei quali eravamo rinchiusi non offrivano spazio sufficiente, specialmente durante la notte. Molti prigionieri non avevano nemmeno spazio per stendere i piedi. L'aria diveniva insopportabile durante la notte…
A Marsiglia fummo messi tutti in una specie di rimessa e dovemmo dormire sulla paglia…

Firmato: Annie Voss, nata Wienhusen.
149r
Allegato No. 24.
Estratti dal protocollo contenente la deposizione giurata della signora A. Heck, davanti al R. Tribunale di Francoforte sul Meno il 10°agosto 1916.
Regio Tribunale.
Francoforte sul Meno, 10 agosto 1916.

Dinanzi a noi:
Aggiunto giudiziario
Dr.   >Adler
f. f. di giudice;

B. H. A. Baltin,
cancelliere.

È apparsa la signora Heck a deporre. La testimone, informata dell'oggetto della sua deposizione e richiamata sulla importanza e santità del giuramento da prestarsi, ha dichiarato:
Mi chiamo Annina Zeuner, nata il 21°gennaio 1880 a Hanau sul Meno, sposata al commerciante A. Heck, domiciliata a Francoforte sul Meno.

A Savé ed a Mediouna.
All'epoca della dichiarazione di guerra ci trovavamo ad Atakpame, nel Togo. Il 27°agosto 1914 fui fatta prigioniera dagli Inglesi insieme agli altri Tedeschi. Verso la metà di settembre fummo condotti al Dahomé. Insieme a mio marito e ad altre due coppie di sposi fummo trasportati nell'interno del Dahomé e più precisamente fino a Savé dove fummo ricoverati in
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casupola. Il trattamento e il cibo fu qui sopportabile. Al principio del luglio 1915 fummo imbarcati e portati al Marocco. Nel vapore fui rinchiusa con altre sette dorme in una cabina, munita però di letti. Dopo insistenti richieste potemmo avere il permesso di vedere, per mezz'ora al giorno, i nostri mariti. Il 19°giugno giungemmo al Marocco dove noi altre donne soltanto potemmo alloggiare a Casablanca in una villa che aveva appartenuto ad un tedesco. In questa villa soffrimmo assai perché il cibo era immangiabile, freddo e primitivo; i giacigli incomodi e duri. Dopo una diecina di giorni fummo condotti tutti, uomini e donne, nel campo di Mediouna dove rimanemmo dalla fine del luglio 1915 al 5°maggio 1916. Dapprincipio dovemmo coricarci sulla nuda terra. Il locale che abitavamo era una specie di stalla senza finestre, che nell'inverno, però veniva riscaldata. Più tardi facemmo aprire un vano nella parete per avere un po' d'aria. I pagliericci venivano raramente cambiati. Nell'inverno ci furono distribuite delle coperte.
C'era un medico che visitava i prigionieri; ma mancavano le medicine. Cattive le condizioni di salute perché infuriavano le febbri malariche. Di 250°prigionieri ne morirono circa 10°durante la mia permanenza colà. Non potrò mai lamentarmi abbastanza del modo indegno con cui fummo trattati tutti, uomini e donne, durante il trasporto dal Marocco alla Francia. Fummo imbarcati in un vapore carico di cannoni e di mitragliatrici e cacciati in una stiva. Nel canile ove mi trovavo io, eranvi 5°donne ed un uomo. Dormivamo colla cintura di sicurezza a portata di mano.
Letto, approvato e sottoscritto:
Firmato: Annina Heck.

La testimone ha prestato giuramento.
Firmati: Adler. Baltin.
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Continua l'estratto del rapporto della signora Annina Heck.
Il 1°giugno 1915 fummo condotte a Widah dove trovavansi gli ufficiali prigionieri, e vi rimanemmo 3°giorni finché non fummo imbarcati per il Marocco…
Nel vapore incontrammo le signore Haack, Schulze e Schneider. Insieme a queste signore e ad altre 3 fui condotta nella cabina e ivi rinchiusa. Un soldato nero stava alla porta… Il primo giorno la porta della cabina non fu aperta mai. L'aria ci veniva da un piccolo boccaporto. Quando, poi, dovemmo uscire per bisogni corporali, un soldato negro ci seguiva fino al cesso… I nostri mariti dovettero prendersi il rancio col secchio sporco di cui si servivano i negri per pulire il pavimento sopraccoperta, sporca anch'essa oltre ogni dire, specialmente quando il mare era mosso e i passeggeri avevano il mal di mare. Il signor D… che osò protestare fu messo in prigione… A Mediouna dovemmo dormire su sacchi di paglia posati in terra, senza l'ombra di lenzuola. Era vietato scrivere. I negri ci vigilavano continuamente…

Mediouna.
Il Kasbah di Mediouna consiste di un muro all'uso marocchino e, qua e là, molte torri. Nel piazzale recinto dalle mura eranvi piccole tende che non sorgevano direttamente sul terreno. I nostri compatriotti prigionieri, lavorando per mesi e mesi, poterono costruire degli impiantiti alti un mezzo metro, sui quali eressero le tende che erano, in tal modo, preservate maggiormente
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dall'umidità. I pagliericci erano posati sul nudo impiantito… I prigionieri erano dimagrati orrendamente e soffrivano martirii indicibili per i tanti parassiti di cui, cogli scarsi mezzi di cui disponevamo, era impossibile liberarsi. Vi erano le pulci dette della sabbia, le pulci ordinarie, voracissime, pidocchi, cimici, scorpioni ed altri animaletti molesti e velenosi. L'acqua per le abluzioni veniva attinta in un pozzo vicino. Il medico, però, ci fece osservare che quell'acqua avrebbe potuto cagionare malattie agli occhi ed agli orecchi. L'acqua potabile bisognava andarla a prendere 5°chilometri lontano, ed al trasporto della medesima erano adibiti prigionieri e soldati… Non ci diedero mai piatti o scodelle per prendervi il rancio. Per mesi e mesi dovetti mangiare in un recipiente di latta che mio marito aveva trovato a caso. Quando potevamo trovare qualche barattolo o vecchia scatola di sardine di Nantes ce ne servivamo per prender acqua o per mangiarvi. Noi altre donne avevamo un'ora al giorno di libera sortita; accompagnate, però da un soldato negro… I francesi si nutrivano molto meglio dei prigionieri, i quali erano tenuti così a corto di cibo (cattivo e privo di qualsiasi sostanza, per giunta,) che, dopo aver consumato il rancio, si recavano dai soldati francesi per contendersi i resti dei loro pasti…
Nell'inverno alle donne non furono distribuiti indumenti gravi. Dovemmo attendere mesi e mesi, finché, nel gennaio del 1910, non furono distribuiti a Mediouna gli indumenti inviati dalla Croce Rossa tedesca… Poco prima di abbandonare il campo di concentrazione ci furono date stoffe grossolane con cui ci confezionammo quegli abiti che avevamo indosso quando arrivammo a Costanza. I prigionieri furono trattati prima come
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prigionieri civili, poi come prigionieri di guerra, e dovettero rispondere sempre militarmente all'appello. Nei primi giorni persino le donne dovevano rispondere alla militare. Nella lista ufficiale di Mediouna il nostro deposito era indicato qual Depôt de Prisonniers de Guerre. Le donne formavano il gruppo n. 8 ed erano considerate egualmente quali Prisonnières de Guerre.
Esse pure dovettero prestare ogni sorta di lavori…
I lavori più duri erano quelli dell'estrazione di pietre da una cava. Le pietre venivano trasportate nel cortile del Kasbah, dove prigionieri di condizione elevata ed istruiti (professori, maestri ecc.), muniti di grandi occhiali, facevano il mestiere di spaccapietre. Ore di lavoro: nell'estate dalle 6 ½ alle 11 o alle 11 ½; e dalle 2°fino alle 5 ½. Specialmente i sottufficiali dovevano assoggettarsi a lavori gravi. Essi dovevano caricare e tirare come bestie un certo numero di carri pieni di pietre. Se durante l'orario consueto non riuscivano a trasportare quel tanto prescritto, dovevano lavorare di più…
A Mediouna infierirono sempre le febbri malariche. Nei pressi del Kasbah trovasi una vecchia palude che i nostri prigionieri dovevano riempire di detriti e di terra già prima che cominciasse la stagione calda. Dalla palude venivano le zanzare a nuvoli. Siccome quasi tutti i prigionieri avevano chiappato le febbri malariche nei tropici, le ricadute erano facilissime. V'erano molti prigionieri che avevano avuto più di una volta le febbri biliari-emoglobinuriche. Il chinino venne a mancare anche a Mediouna per settimane e settimane. Egualmente dicasi di qualsiasi medicamento… I malati ricevevano il vitto dei sani. Una sola volta furono date loro delle uova.
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I prigionieri avevano un gran bisogno di latte. Il pane era insufficiente. La dissenteria era all'ordine del giorno… I prigionieri deperirono tanto, che, finalmente, anche a Mediouna, ritornarono le febbri ittero-ematuriche nel nostro campo.
Le scarpe che la Croce Rossa tedesca ci mandò non furono mai distribuite ma ammassate in un magazzino. Il comandante ne prelevò solo qualche paio per i prigionieri che non potevano andar scalzi. Camicie e calzoni furono presi dalle riserve della Croce Rossa quando quelli che i prigionieri avevano addosso erano ridotti in veri brandelli.

Letto, approvato e sottoscritto:
Firmato: Annina Heck.
La testimone ha prestato giuramento.
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Allegato No. 25.
Estratto dal rapporto del 19 ottobre 1916 del medico governativo al Camerun Dr. Koch sulla sua prigionia. Il rapporto fu confermato il 27°novembre dello stesso anno con giuramento davanti al Tribunale militare di Danzica.
Il 15°luglio 1915 abbandonammo il Dahomé sul vapore "Asie". Durante la traversata che duro 12°giorni non ci era permesso di uscire dalle cabine. Gli uomini trasportati insieme a noi furono rinchiusi in una stiva di carico.

Medea.
Sul vapore "Mingraelie" continuammo il viaggio attraverso il Mediterraneo fino ad Oran. Colà assistemmo a scene ributtanti per il fatto che volevano rinchiudere nelle prigioni dei delinquenti le donne che accompagnavano i loro mariti prigionieri di guerra. Le donne si opposero energicamente e dovettero alla loro energia se riuscirono ad ottenere un trattamento meno indegno. Gli ufficiali furono rinchiusi in una casamatta della fortezza adibita ad uso di prigione, e dormivano su sacchi di paglia. Il primo luogo del nostro soggiorno fu Djelfa (Algeria). Non dimenticherò mai le torme di animali parassiti che trovammo qui. Dormivamo in terra su pagliericci. L'11 ago-
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sto 1915 entrammo nel campo di concentrazione di Medea; un campo di rappresaglia nel quale eravamo trattati come ostaggi. Un giorno fu portato in questo campo il nostro capo distretto, signor von Parpart, il quale mi confessò di sentirsi morire. Mi disse che era ammalato da molto tempo di febbri malariche e che non aveva mai potuto ottenere una pastiglia di chinino nemmeno all'ospedale di Oran dove l'avevano sottoposto soltanto a scarificazioni. Morì il 16°agosto 1915.
14°ufficiali dovettero trascorrere l'inverno in un locale non riscaldato lungo m. 14,5, largo 5,85 ed alto 4, 40; altri 7°ufficiali in una stalla. La stalla alloggiava pure il corpo di guardia arabo, un cavallo e serviva di mensa anche agli altri 17 ufficiali. Per lavarci dovevamo andare all'aperto. Gli ufficiali si dovevano lavare la loro stessa biancheria. I prigionieri di questo campo erano stati lungamente nei tropici e non indossavano che leggerissimi abiti khaki insufficienti a coprirli dal freddo. Non c'è quindi da meravigliarsi se nel mese di novembre 1915 si ebbero su soli 29°prigionieri ben 33°casi di malattie diverse (percentuale del 69°% sul numero complessivo dei prigionieri) e più precisamente:
3 casi di bronchite,
9 casi di dolori reumatici,
5 casi di febbri malariche,
4 casi di catarri leggeri,
2 casi di nevrosi del cuore,
4 casi di influenza,
1 caso di appendicitis simplex,
1 caso di dissenteria cronica
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1 casi [sic] di periostite,
2 casi di gastro-enterite,
1 caso di congiuntivite catarrale
Totale 33

Le cure mediche a Medea erano insufficienti. Era quasi impossibile poter far ricoverare un malato grave all'ospedale. Il medico francese veniva solo dopo tre o quattro giorni, quando era chiamato con insistenza a voce ed in iscritto. Persino le lettere urgenti dei medici tedeschi non venivano prese in considerazione. Fu così che malati di febbri e di dolori reumatici dovettero rimanere per giorni e giorni in locali non riscaldati. Le medicine dovevamo comprarcele noi stessi a carissimo prezzo alla farmacia, perché l'ospedale o le ricusava per principio o le dava solo dopo molti giorni; quando, cioè era troppo tardi. Le sostanze per le medicazioni di nostra pertinenza finirono beh presto; cosicché noi altri medici ci vedemmo ben presto nell'impossibilità di prestare aiuto ai nostri compatriotti bisognosi di cure. Solo quando ricevemmo del denaro da casa potemmo fare nuovi acquisti di medicinali per non dipendere completamente dal medico francese che non si curava punto di noi.
La prigionia fu inasprita colla serrata delle lettere, pacchi e vaglia postali; serrata che ci tagliava qualsiasi legame colla patria e ci sottraeva cibi e mezzi per acquistarne. Sui pacchi postali e sul denaro noi facevamo un grande assegnamento perché il rancio era insufficiente e i più soffrivano di iponutrizione. Il comandante dell'accampamento, capitano Schmidt, non muoveva un dito per migliorare le condizioni dell'accampamento.
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Il 23°gennaio 1916 giunsero due a signori svizzeri in ispezione. Guai a noi se avessimo barattato con essi una sola parola! Ci vennero minacciate le più gravi pene. Le nostre proteste scritte – ci ebbe a dire una volta l'interprete…– non venivano inoltrate, e andavano a finir tutte nel cestino…

Oliva, 29°ottobre 1916.
Firmato: Dr. Koch,
medico governativo, di servizio nelle truppe coloniali del Camerun.
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Allegato No. 26.
Estratto dal rapporto del 23 novembre 1926, del Dr.   >E. Bergeat, capitano medico presso le truppe coloniali al Camerun.

In viaggio verso il Marocco sul vapore "Tibet".
La mattina dell'8 agosto ci fu detto che saremmo partiti per Casablanca. Alle ore 10 vennero alcuni Tedeschi prigionieri a prenderci i bagagli e alle ore 12 fummo condotti al ponte d'approdo. Qui trovammo il veterinario della riserva Dr. S… e il medico governativo Dr. Hermann proveniente dal Togo, ambedue degenti all'ospedale, l'uno per gravi febbri malariche, l'altro per malaria e dissenteria. Entrambi erano debolissimi, avevano un aspetto terreo di cadavere, e, ciò nonostante, non eran stati trasportati fino al ponte d'imbarco, ma costretti, insieme ad altri malati gravissimi, a strascicarsi a malapena fin là. La maggior parte degli imbarcati – mi pare che fossero 104 – erano senza camicia, coperti a mala pena da qualche cencio lurido e consunto: i più scalzi. Ognuno portava sotto il braccio la sua stoia d'erba secca (il suo letto) e sulle spalle qualche bagaglio. Eppure quella folla di gente ridotta dal male e dai maltrattamenti in uno stato da far pietà era composta di individui una volta fiorenti; alti impiegati dell'amministrazione coloniale, marinai della linea di navigazione Woermann, commer-
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cianti, ecc. Il loro sguardo timido, l'espressione della sconsolatezza per i dolori sofferti, la muta attesa della sorte che li aspettava, gli orrori del Dahomé ancora vivi davanti ai loro occhi, il tormentoso dubbio di un nuovo trattamento indegno, tutto ciò si poteva leggere così bene nel volto di quegli infelici disfatti dalle febbri ittero-emoglobinuriche, dalle febbri malariche, dalla dissenteria e da tutte le privazioni e tormenti. Gli occhi incavati e senza più espressione, il colore giallo-grigio della loro pelle, i corpi disfatti narravano così bene l'atroce vita da essi sopportata, che un senso di raccapriccio e di infinita pietà scendeva al cuore al solo vederli. I Francesi circostanti, soldati e ufficiali, fra cui il Dr. Waggon, parevano, invece, compiacersi di quella scena, e ghignarono ironicamente quando ci videro sostenere uno a uno i poveri malati perché potessero imbarcare. Il dottor I… ed io, rimanemmo come colpiti da una mazzata quando sentimmo il dottore francese Waggon dire al capo-trasporto, capitano Bonnet, che "nel gruppo non vi erano malati!"
Il dottor S…, rimasto lungo tempo all'ospedale per fare da interprete ai nostri malati, domandò del chinino e il dottor Waggon gliene diede soltanto 13 cartine di 0,25 g ognuna. Tredici cartine per 104 febbricitanti!...
Il vapore sul quale viaggiavamo era il "Tibet", una vecchia carcassa rimessa su a causa della penuria di tonnellaggio, e che mal si reggeva a galla a forza di pece e di tasselli. Una stiva di carico a poppa serviva di alloggio ai 104 prigionieri, una stiva nella quale appena 60 uomini avrebbero potuto trovar posto… Il capitano Bonnet era il capo del trasporto; lo coadiuvavano i sergenti Vergnaud e Gianzelli, nonché 150
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soldati negri addetti alla nostra vigilanza. Noi altri ufficiali avemmo, per ordine del capitano Bonnet, un locale a babordo, lungo circa 10 metri e largo 2; ma ingombro di macchine di carico, di casse, barilozzi, ecc. Tutto sommato, se si pensa che il viaggio doveva durare 20 giorni, eravamo sottopasti ad un trattamento indegno, molto più che il vapore era quasi vuoto di passeggeri…
Il capitano Bonnet affidò, il 9 agosto, alle mie cure mediche tutti i Tedeschi prigionieri ed anche il personale di scorta. Domandai subito le medicine e i bendaggi necessari, ma il capitano mi rispose che non ve ne erano perché il medico francese Waggon aveva detto che i prigionieri erano tutti sani. Avendo protestato energicamente fui mandato dal secondo ufficiale che amministrava la farmacia di bordo. Potei avere allora qualche straccia di tela e alcune medicine del tutto insufficienti. Sottoposti i prigionieri ad una prima visita generale, rimasi io stesso atterrito del resultato. La lista che feci in quest'occasione mi fu portata via dal sergente Vergnaud. Domandatogli dove l'aveva messa, rispose che era una lista non corrispondente a verità; che il Bonnet mi avrebbe messo agli arresti per aver compilato una lista falsa; che il Waggon, alla partenza, aveva dichiarato espressamente non esservi malati; che per lui era indifferente se tutti erano sani o malati, se crepavano o no; che il Bonnet non avrebbe accettato il mio responso, ecc. ecc. e tant'altre ancora ne disse che cessai persino dall'ascoltarlo. Ma Vergnaud sapeva quel che si diceva. Infatti il Bonnet mi fece chiamare e mi tenne i medesimi discorsi. Avendogli risposto che declinavo, allora, qualsiasi responsabilità, consentì, pro forma, ai malati gravi, un vitto migliore che non venne mai.
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In questo stesso giorno feci comprendere al Bonnet che il luogo nel quale erano alloggiati i prigionieri era indegno della natura umana; che i poveretti non avevano nemmeno posto per distendere i piedi; e che, essendo tutti mescolati insieme, lo stato dei malati si aggravava sempre più…
Recatosi meco a visitare quel puzzolente canile si convinse coi suoi occhi che ogni stoia era occupata da due o tre uomini, che le pareti erano grommate di umidità che colava dall'alto, i pavimenti sozzi di grassi e di ogni sorta di lordure, per quanto il sergente Vergnaud, interrogato al riguardo, avesse cercato di smentire le mie affermazioni. L'11 agosto fu messa a nostra disposizione una seconda stiva. Debbo far osservare che questi locali di carico non avevano altra luce e altra aria che quella piovente dal boccaporto… La mia ultima domanda di dare ai prigionieri un locale più degno delle stive, fu senz'altro respinta…
Firmato: Dr.   >E. Bergeat,
capitano medico delle truppe coloniali al Camerun;
attualmente di stanza a Berchtesgaden.
23 novembre 1916.
(1) Nell'esercito francese l'aiutante è sottufficiale. Questo grado corrisponde, a un dipresso, a quello tedesco di foriere.
(2)Le traitement réservé aux prisonniers allemands dans les colonies françaises est entièrement conforme aux sentiments d'humanité que le gouvernement de la république tient à honneur, en toutes circonstances, d'observer scrupuleusement. – Nota del Ministero degli Esteri francese all'ambasciata americana in Parigi del 9 marzo 1915.
Empfohlene Zitierweise
[Erzberger, Matthias], I metodi di guerra degli Inglesi e dei Francesi nel Togo e nel Camerun. I Tedeschi del Togo e del Camerun prigionieri dei Francesi nel Dahomé vom vor dem 20. Juni 1917, Anlage, in: 'Kritische Online-Edition der Nuntiaturberichte Eugenio Pacellis (1917-1929)', Dokument Nr. 7113, URL: www.pacelli-edition.de/Dokument/7113. Letzter Zugriff am: 29.03.2024.
Online seit 24.03.2010, letzte Änderung am 20.01.2020.