Dokument-Nr. 10037

[Erzberger, Matthias]: La questione Romana. Cenno informativo sul disegno e il carattere generale dell'opera del prof. dott. Hubert Bastgen e sul contenuto del primo volume, vor dem 30. Dezember 1917

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La questione romana.
Cenno informativo sul disegno e il carattere generale dell'opera del prof. dott. Hubert Bastgen e sul contenuto del primo volume.
La "questione romana", che, a varie riprese, cristallizzò, per così dire, intorno a sé l'attenzione universale, fu nei libri, nelle pagine dei quotidiani, nelle aule e nei corridoi dei Parlamenti, nei gabinetti dei Ministri, nei discorsi pubblici e privati la questione del giorno per eccellenza, pure essendo ricaduto, talvolta, un po' nell'ombra, non ha cessato mai, da un mezzo secolo in qua, dall'occupare la mente di studiosi e d'uomini d'azione, di figli devoti della Chiesa cattolica e di avversari, in una parola, dall'esser viva. A chi ne avesse dubitato, la guerra mondiale, che, se gli odierni indizi non ingannano, volge lentamente al termine, lo ha provato con ogni chiarezza.
Essa ha dimostrato e dimostra di continuo – come e in quanti modi non accade di rammentare perché superfluo – a chiunque abbia vissuto e viva, partecipandoli, questi anni terribili, l'importanza, non diminuita, della questione; la sua persistente attualità la sua immutabilità sostanziale; l'impossibilità di ostinarsi a volerla sopprimere senza risolverla. La guerra mondiale ha, anzi, fatto toccar con mano l'urgenza di risolverla ora, in modo definitivo, e cioè in conformità della sua natura e delle nuove condizioni politiche e sociali.
Non fa, quindi, meraviglia che la letteratura della questione, già assai varia e copiosa, torni a moltiplicarsi, e che a ciò vadano contribuendo, in
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misura più o meno larga, quasi tutti i paesi civili.
Ancora una volta, però, doveva essere la Germania la prima a soddisfare un desiderio di moltissimi, un bisogno da lungo tempo sentito, o a compiere, per lo meno, un buon passo innanzi sulla via che convien battere per il raggiungimento della mèta: la descrizione, l'esposizione della questione romana non ristretta a un determinato periodo storico, ma generale, completa, di tutte le sue vicende e gli aspetti, dalla sua nascita allo stadio presente. Di un'opera simile era lamentata, a ragione, sin qui, la mancanza.
Infatti, mentre il Grisar, il Gregorovius, il Langen, il Papencordt e il Reumont, per citare gli autori di maggior fama, non conducono il loro racconto più in là del medioevo, alcuni di essi, anzi lo interrompono ben presto, il Brosch, il Pastor e il Ranke si restringono agli ultimi quattro secoli, il Nürnberger al secolo XIX. Inoltre, si potrà, forse, osservare, questi scrittori fanno argomento delle loro indagini e della loro narrazione non la questione romana propriamente, come dice il titolo dei loro libri, ma lo Stato della Chiesa, il dominio temporale dei Papi, i Papi stessi.
A questa osservazione conviene, però, risponder subito che se uno storico della questione romana, in senso stretto, può trascurare parecchie cose che lo storico dello Stato della Chiesa non può, quest'ultimo deve dare per forza alla questione, nel suo racconto, il posto principalissimo che le compete come nucleo essenziale, come il fatto che caratterizza e impronta di
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sé tutto lo svolgimento dello Stato della Chiesa attraverso i secoli, quello intorno a cui tutti gli altri s'imperniano e si raggruppano. Gli scrittori citati si sono proposti semplicemente un tema più vasto: narrando la storia dello Stato della Chiesa, essi hanno, dunque, dovuto, di necessità, narrare per filo e per segno quella della questione romana nel tratto di tempo prescelto.
L'abitudine e la pigrizia a spingere lo sguardo oltre la serie di anni che meglio sono presenti alla memoria inducono poi anche non pochi a intendere, di solito, sotto il nome di questione romana nient'altro che il conflitto fra l'Italia (Piemonte) e il Vaticano, dall'annessione delle Legazioni, o, perfino, dalla presa di Roma (ossia dalla fine dello Stato pontificio) ai nostri giorni. Sennonché la questione è, in realtà, di data molto più antica, come quella che sorse con le prime contestazioni, a fatti e a parole, della sovranità temporale dei Papi. Mutando d'aspetto, essa è rimasta, sostanzialmente, la medesima dai Langobardi e dai Carolingi a Napoleone I, a Napoleone III, a Pio IX, a Cavour, a Vittorio Emanuele II, a Leone XIII, a Crispi, giù giù sino a Pio X, al barone Sonnino e a Benedetto XIII. Una storia generale della questione romana non si contenterà, quindi, di esporre l'ultima manifestazione, da mezzo il secolo XIX o dal 1870 ad oggi: anzi, se intesa in senso largo, finirà sempre, in fondo, per essere una storia dello Stato della Chiesa con particolare riguardo ad essa.
Com'è, appunto, il caso dell'opera di cui vogliamo occuparci.
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L'autore, il chiarissimo professor dottor Hubert Bastgen, privato docente di storia della Chiesa all'Università dì Strasburgo, ora cappellano militare delle truppe tedesche in Sofia, dichiara di averne avuta la prima idea nella primavera del 1916. Ed ecco che, alla distanza di poco più di un anno e mezzo, egli licenzia già al pubblico il primo volume (1) di oltre 450 pagine cui terrà dietro, fra qualche settimana, il secondo.
Questa rapida attuazione, avverte il professore, è stata possibile solo perché il deputato al Reichstag Matthias Erzberger la colse subito, per dir così, a volo e l'assecondò in ogni modo, sicché in primissimo luogo ne va dato a lui il merito.
Quanto alle difficoltà incontrate, e che bisognò superare, esse furono, come ognuno facilmente s'immagina, senza numero e straordinarie. "Sulle difficoltà frapponentisi ad un lavoro come il presente, non è necessario – si legge nella prefazione – che io mi dilunghi. Le fonti dalle quali trassi i documenti e le voci sono citate, volta per volta, esattamente. Come si vede, l'"Augsburger (Münchener) Allgemeine Zeitung" mi tornò assai utile, specie per i resoconti delle sedute di Parlamenti esteri di tempi meno recenti che nelle biblioteche non si trovano. Perfino le importanti discussioni della Legge sulle guarantige, nella Camera italiana, si trovano solo nella Camera dei deputati prussiana. Per quel che poi si riferisce alle note diplo-
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matiche le raccolte ufficiali dei Governi (Libri bianco, rosso, giallo, verde, azzurro ecc.) più antiche si cercano invano pure nelle grandi biblioteche. Dal 1861 si rimedia, è vero, a questa lacuna da due collezioni, dallo "Staatsarchiv", pubblicato insieme dall'Aegidi e dal Klauhold, e dagli "Archives diplomatiques". In quest'ultima collezione, però, tutto è francese: gli originali, che soli possono comunicare anche la sfumatura di colore di questa o quella espressione diplomatica, talvolta assai importante, spesso mancano. Lo "Staatsarchiv" poi riproduce i testi originali come avvenne di trovarli: per esempio, la capitolazione di Roma in inglese, l'annessione in francese, perché cosi il Libro azzurro inglese, da cui vennero tolti, offerse i due documenti. Nella misura che mi fu possibile – e ciò vale specialmente per il secondo volume – io ho riprodotto i documenti nel testo originale corredandolo della traduzione tedesca se in altra lingua che la francese." Ma veniamo al disegno e al carattere generale dell'opera.
Il professor Bastgen non si è proposto di darci per disteso, dalle origini, la storia della questione romana ma ha voluto, per il momento, prefiggersi un compito più modesto: offrirci, sobbarcandosi alla parte più grave e faticosa dell'impresa, una scelta critica, varia, abbondante e bene ordinata del materiale cui deve ricorrere chiunque si accinga a scrivere una simile storia. Perciò delle quattrocentosessantasette pagine del primo volume le più sono occupate dai documen-
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ti (documenti veri e propri, in senso rigoroso, e "Stimmen," voci: relazioni di sedute parlamentari, commenti di giornali, opinioni di uomini politici, giudizi e testimonianze di dotti: il nome collettivo tedesco non ha in italiano esatto riscontro) e non dal testo. Il testo, tutto al contrario di quanto si potrebbe supporre, è la parte meno importante del libro. Per sommi capi, correndo difilato allo scopo, rinviando di continuo agli atti ufficiali, alle note e circolari diplomatiche, alle lettere e ai discorsi di Sovrani e Ministri, agli estratti di protocolli di conferenze e di sedute d'assemblee ecc. riportati alle fine d'ogni capitolo, invece di narrare con agio, diffusamente, con abbondanza di particolari, esso richiama alla memoria solo quanto occorre per cucire insieme, con un semplice filo d'imbastitura, i vari gruppi di documenti, molti dei quali dovranno, un giorno, esser tratti dalle appendici e dalle note a piè di pagina e venire incorporati, per intero o in compendio, nel racconto.
Senza dubbio, un lettore intelligente e di buona volontà, può, anticipare, in certo modo, via via, per suo conto, il lavoro d'integrazione, di fusione, di coordinamento, di sintesi, che rimane a fare, seguendo l'invito dei frequenti sistematici rinvii al margine, ma ciò non toglie che il testo in parola abbia unicamente la pretesa, lo scopo indicato. Per esprimerlo con un'immagine, il professor Bastgen mette innanzi da un lato il disegno, lo schema dell'edificio, dall'altro i materiali per costruirlo, e lascia la cura di fecondare, di portare a compimento la nobile fatica sua e dei collaboratori, dei quali non si fa il nome, ma
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che meritano egualmente lode, a chi sappia e voglia.
Passando a dire dei documenti, essi, com'è dichiarato nei periodi della prefazione riferiti più sopra, sono dati quasi sempre, per intero o in parte, secondo l'opportunità, nell'originale, e, ad eccezione di quelli in lingua francese, sono tutti accompagnati da una buona traduzione tedesca.
Quanto alle fonti, da cui documenti e voci sono tratti, aggiungeremo, alle già menzionate (ossia lo "Staatsarchiv" dell'Aegidi e Klauhold, gli "Archives diplomatiques" e l'"Augsburger Allgemeine Zeitung"), il "Codex diplomaticus dominii temporalis Sanctae Sedis" del Theiner; l'opera del vescovo Agostino de Roskovány; i "Regesta Pontificum Romanorum" dello Jaffé-Löwenfeld, del Potthast e del Kehr; i regesti dei Papi del secolo XIII e XIV, pubblicati dalla École française di Roma; il "Liber Ponteficalis" nell'edizione procurata da monsignor Duchesne; le raccolte delle lettere dei Papi del Thiel, del Löwenfeld, del Pflugk-Harttung e del Rodenberg; il "Codex Carolinus"; i "Monumenta Germaniae historica"; i "Regesta imperii" dei Boehmer-Mühlbacher; la "Correspondance de Napoléon 1er"; i "Documenti relativi alle contestazioni insorte tra la Santa Sede e il Governo francese" del Sala; la "Storia documentata" del Bianchi; gli "Annali d'Italia" del Coppi, ecc. ecc. Né il professor Bastgen tralascia di raccomandare la consultazione di scritti come l'articolo "Patrinonium Petri" del Brackmann nel tomo XIV della "Enciclopedia positiva della Chiesa e teologia protestante", e libri come il "Trattato manuale di storia generale della Chiesa" del Hergenröther; il "Dizionario ecclesiastico" del Wetzer e Welte; il "Repertoire des
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sources historiques du Moyen âge" dello Chevalier; la "Guida attraverso le storie del medioevo europeo sino al 1500" del Potthast; le "Fonti storiche della Germania sino alla metà del secolo XIII" del Wattenbach; le "Fonti per la storia della nascita dello Stato della Chiesa" del Haller; i "Rerum italicarum scriptores" e le "Antiquitates italicae" del Muratori. È naturale.
Infine, quanto alla letteratura, il professor Bastgen dà ad essa il suo posto, ma è chiaro che egli non possa citare né citi, quindi, che il più degno di menzione.
Lo Stato della Chiesa sino alla sua prima secolarizzazione, sino, cioè, alla fine del secolo decimottavo, è l'argomento del primo capitolo del volume suddiviso in due parti, delle quali l'una tratta degli inizi del "Patrimonium Petri", l'altra della graduale trasformazione di questo patrimonio in Stato della Chiesa.
Assai prima di divenire sovrano temporale il Papa fu proprietario di fondi rustici acquistati mediante pie donazioni e lasciati e amministrati con grande cura. Riconosciuto, dall'Imperatore Costantino, alla Chiesa il diritto di possedere, il numero e l'estensione di questi fondi andò di continuo créscendo tanto che sotto Gregorio Magno misuravano già, insieme, ottantacinque miglia quadrate. Essi giacevano non solamente in Italia, soprattutto in Roma stessa e nei dintorni, ma altresì in Sicilia, in Africa, nella Gallia meridionale, in Dalmazia e nell'Illiria.
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Ciò che una volta dall'Imperatore venne omai [sic] fatto dal vescovo di Roma. Egli fu il padre dei poveri, il rifugio dei Romani in tutte le pene dei tempi calamitosi delle invasioni straniere, il loro soccorritore nella miseria, il loro protettore, il loro difensore. Sette volte, in breve spazio di tempo, presa dai barbari, se Roma rimase la "Città eterna" fu merito del Papa.
Nessuna meraviglia, quindi, che accanto alla grande potenza spirituale del primo vescovo della cristianità sorgesse spontaneamente, a poco a poco, la sua potenza sociale e politica. Pure dopo il trasferimento della residenza imperiale a Costantinopoli; pure dopo essere stata ripetute volte conquistata, Roma aveva seguitato ad essere il centro ideale del mondo. E in essa, anzi in tutta la penisola, il successore del primo apostolo era divenuto la persona più ricca e più autorevole. I beni erano stati donati a san Pietro e a somiglianza delle proprietà dell'Imperatore ("patrimonia") chiamati "Patrimonia Petri": ma come il vescovo di Roma, quale vicario di Pietro, aveva potuto prevalere su tutti gli altri successori dell'apostolo, così egli, come amministratore dei beni donati a Pietro, era divenuto, nelle sconvolte condizioni sociali e politiche d'Italia, l'unica base d'ordine e di autorità. Roma fu ormai la sua città, il popolo di Roma il suo popolo. Gl'interessi politici di tutta l'Italia vennero rappresentati da lui. Il "Patrimonium Petri", l'antico ducato romano, la "Sancta res publica" fu il germe e il nucleo di questo potere temporale, il fondamento giuridico per lo Stato che, presa la sua forma definitiva, fu chiamato Stato della Chiesa.
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Nella seconda parte del primo capitolo si accenna, innanzi tutto, alle relazioni tra il vescovo di Roma e gl'Imperatori bizantini e alle cause che indussero i Papi a mutare l'indirizzo della loro politica per conservare quel potere temporale che, sviluppatosi a poco a poco nel corso dei secoli, era divenuto base e garanzia del libero esercizio dell'ufficio spirituale. I Langobardi, mirando a estendere il loro dominio su tutte le province d'Italia, strinsero sempre più da presso Roma e minacciarono quindi l'indipendenza del Papato. Per un momento le interne dissensioni del giovane regno parvero allontanare questo pericolo. Fra il Papa e il popolo straniero divenuto cattolico si stabilirono rapporti discretamente buoni. Sennonché Re Liutprando, soffocate le discordie intestine, riprese la politica di conquista dei suoi predecessori e venne infine in conflitto con Papa Gregorio II. Il quale, chiesto invano aiuto a Carlo Martello, riuscì, tuttavia, a giungere a un accordo con l'ambizioso sovrano. La lotta fra i Papi ed i Re longobardi si riaccese sotto il violento Astolfo, che ridusse presto in suo potere l'Italia settentrionale e centrale, e s'intitolò Re d'Italia, anzi Re di Roma. Il pontefice Stefano conchiuse con lui una tregua di quarant'anni, ma dopo solo alcuni mesi le ostilità ricominciarono. Il Papa si rivolse all'Imperatore in Bisanzio, che gli rispose si cercasse aiuto dove meglio credesse di trovarlo, onde il Papa si rivolse al figlio di Carlo Martello, a Re Pipino. Con questo fatto ebbe principio un'epoca nuova. Il 6 gennaio 754 un Re franco e un Papa s'incontrarono per la prima volta e strinsero alleanza. Il vecchio mondo romano e il nuovo mondo germanico, sacerdozio e regno, presto trasformatosi
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in impero, si congiunsero. E i primi frutti furono ottimi per il Papato: il Re franco divenne patrizio dei Romani al posto dell'esarca imperiale di Ravenna; la rottura coll'Impero romano d'Oriente fu un fatto compiuto.
Segue il racconto della prima e seconda discesa di Pipino in Italia, della conquista di Pavia, della sottomissione di Astolfo, delle contese tra il Papa e Re Desiderio, della venuta di Carlomagno in Italia, della sua solenne conferma della donazione di Pipino, dell'origine del "pactum ludovicianum" dell'incoronazione di Ottone I a Imperatore romano, della lotta fra la Chiesa e l'Impero, del trasferimento della Curia in Avignone, del ritorno del Papa nella Città eterna, del primo nuovo conclave in Roma, del grande scisma, dell'opera di Martino V, di Sisto IV, Alessandro VI, Giulio II, Clemente VII, Paolo III, Pio V ecc. ecc. Lo Stato della Chiesa, formatosi e consolidatosi attraverso tante vicissitudini, sussistette inalterato dalla seconda metà del secolo XVI, alla fine del secolo XVIII sino a quando non venne anch'esso abbattuto dal turbine della rivoluzione francese.
Fra i documenti raccolti nell'appendice di questo primo capitolo noteremo le testimonianze degli acquisti sotto Re Ariperto, Re Liutprando e Pipino tratte dal "Liber pontificalis" (vite di Giovanni VII, di Gregorio II, di Stefano I), l'appello di Gregorio III a Carlo Martello e di Stefano II a Pipino e Carlomagno riferiti dal "Codex carolinus"; la testimonianza del "Liber pontificalis" della donazione di Carlomagno (vita di Adriano); il privilegio di Ludovico il Pio; la promessa di Ottone IV, del 22 marzo
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1209; il decreto di Pio V sulla inalienabilità dei territori della Chiesa romana. Fra le voci noteremo tre giudizi del Reumont ("Storia della città di Roma") e uno di Adolf Menzel ("Storia dei Tedeschi").
In un paragrafo a parte dell'appendice è elencata la speciale letteratura del "Patrimonium Petri" e della donazione carolingica. Citeremo, fra gli altri, gli scritti di Pierre Bastienne, del Baxmann, del Brunengo, del Caspar, del Crivellucci, del Duchesne, del Funk, del Grisar, del Gundlach, del Hirsch, del Kehr, del Lamprecht, del Martens, del Sackur, del Ziekel, del Siebel.
Nella medesima forma rapida e concisa del precedente, il secondo capitolo tratta della prima secolarizzazione dello Stato della Chiesa.
Mandatario della rivoluzione, Napoleone Bonaparte scende in Italia a ricostituire la Repubblica romana; passa di vittoria in vittoria; occupa Milano, quindi le città pontefice di Urbino, Ferrara, Ravenna, Imola, Faenza e propone al Papa un armistizio. Le condizioni di pace del Direttorio di Parigi sono però tali che il Papa deve respingerle. Con il trattato di Tolentino Pio VI è costretto a rinunziare definitivamente ad Avignone e al Venaissin, in Francia, alle legazioni della Romagna e alla fortezza di Ancona in Italia. Nel febbraio 1798 viene proclamata nella Città eterna la Repubblica. Pio VI non vuole spogliarsi del potere temporale.
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Condotto via a forza da Roma soccombe presto, nell'esilio, al dolore e agli strapazzi.
Con il pontefice martire il mondo crede che anche il Papato sia morto. Sennonché si avvera una mutazione nel corso degli eventi. La seconda coalizione contro la Francia riconquista pure lo Stato della Chiesa. Pio VII, eletto il 3 luglio 1800, fa il suo ingresso in Roma. Napoleone, alla notizia delle sconfitte patite delle truppe repubblicane, si affretta a tornare dall'Egitto, riconduce la fortuna dalla sua, ricostituisce la Repubblica Cisalpina, trattiene Bologna, Ferrara, Ravenna e lascia al Papa il rimanente della Stato della Chiesa. Egli ha bisogno di lui: il Capo della cristianità deve mettere il suo sigillo alla sua potenza, conferì le [sic] carattere legittimo. Con il Concordato, che deve ridare ai popoli la calma e allo Stato ordine e stabilità, il Papato trionfa sul figlio della rivoluzione: ma, purtroppo, non a lungo.
Come alla Repubblica francese aveva tenuto dietro l'italiana, al Concordato francese l'italiano, così all'Impero di Francia segue il Regno d'Italia. Napoleone si pone sul capo la corona di ferro. Ma il sole di Austerlitz lo acceca. Il Papa vuol rimanere neutrale in tutti i turbini di guerra che Napoleone scatena successivamente in Europa. L'ambiziosissimo corso aspira ad essere un nuovo Carlomagno, pretende d'imporre, come imperatore di Roma, la sua volontà al Pontefice. Questi, però, dichiara fermamente e recisamente di voler difendere ad ogni costo i diritti della Santa Sede. Il conflitto è inevitabile. L'Imperatore decreta la deposizione dei Borboni e vuole che il Papa unga e incoroni Re di
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Napoli suo fratello Giuseppe. Pio VII non ne vuol sapere, anzi preferisce dì perdere le città di Pontecorvo e Benevento che sono incorporate al Regno di Napoli. Il Papa insiste nella difesa del suo sacro diritto. Napoleone fa occupare Roma e unisce le delegazioni di Urbino, Ancona, Macerata e Camerino al Regno d'Italia. Segue uno dei maggiori avvenimenti politici del tempo. L'Imperatore decreta da Schönbrunn la soppressione dello Stato della Chiesa. Roma viene dichiarata città libera; al Papa è assegnata una rendita di due milioni e assicurato il possesso dei Palazzi Apostolici ecc. Pio VII protesta e scomunica il rapitore del "Patrimonium Petri". Fatto prigioniero, il Capo della Chiesa conferma la sua dichiarazione di non poter rinunziare al dominio temporale, perché appartiene alla Chiesa ed egli non ne è che l'amministratore. "Mi toglierete piuttosto in pezzetti", dice al generale Radet, incaricato di arrestarlo.
Così, per la seconda volta, in breve spazio di tempo, la figlia primogenita della Chiesa osa mettere le mani sul Vicario di Cristo. Napoleone finge di disapprovare la cattura del Papa, il suo trasporto lontano da Roma. Come se egli non abbia modo e mezzo di riparare all'abuso del Generale Radet, dato che questi abbia oltrepassato l'incarico affidatogli!
In tutta l'Europa il Papa è l'unica autorità che non si pieghi dinanzi a Napoleone. Egli non ha armi, ma una coscienza. L'Imperatore vuol metter fine al conflitto che si aggrava troppo e gli aliena i popoli. I suoi tentativi però falliscono. Pio VII tien fermo. Napoleone denunzia
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il Concordato. Spunta il 1812. Temendo che possa sfuggirgli, Napoleone fa trasportare il Pontefice da Savona a Fontainebleau. Per trattare la conclusione di un nuovo Concordato, Napoleone si reca in persona a Fontainebleau il capo d'anno del 1813. Vecchio e affranto, il Papa non resiste alle insistenze e alle astuzie dell'Imperatore. Negli articoli preliminari del Concordato, egli rinunzia alla sua sovranità temporale, acconsentendo così di divenir suddito del Sovrano francese. I giorni di Avignone stanno per ripetersi, ma il pericolo presto dilegua. Il Papa ritira coraggiosamente le concessioni fatte. Napoleone non se ne cura. Il 1813 non è ancora finito, ma proprio questo anno lo dispone a conciliazione. Egli offre al Papa libero ritorno a Roma e il possesso dei territori rilasciatigli col decreto dell'8 aprile 1808. Il Papa non vuole una restituzione a metà e respinge l'offerta. Ma le cose precipitano. Napoleone ha perduto quasi tutta l'Italia. Egli ridona, quindi, la libertà al suo augusto prigioniero (10 marzo 1814).
Accolto dal popolo festante, il 24 aprile 1814, Pio VII rientra nella sua capitale.
L'appendice di questo capitolo abbraccia ventisette documenti dei quali ventuno sono ricavati dalla "Correspondance de Napoléon Ier par ordre de l'Empereur Napoléon III" (Parigi, 1858 e seg.). Degne soprattutto di nota ci sembrano le lettere che Napoleone scrisse da Ferrara, il 21 ottobre 1796, al Cardinal Mattei; da Tolentino, al Direttorio, il 19 febbraio 1797, e da Monaco di Baviera a Fesch, il 7 gennaio 1806. In quest'ultima si leggono i periodi: "Pour 1es Papes, je suis Charlemagne,
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parce que, comme Charlemagne, je réunis la couronne de France à celle des Lombards, et que mon Empire confine avec l'Orient. J'entends donc que l'on règle avec moi sa conduite sur ce point de vue. Je ne changerai rien aux apparences, si l'on se conduit bien; autrement je réduirai le Pape à être évêque de Rome:" periodi cui, nella sua protesta per la sottrazione di Ancona, Pio VII rispose ("Correspondance de la cour de Rome"): "Plût à Dieu que l'Empereur des Français se montrât successeur de Charlemagne tel qu'il se vante de l'être!" Il professor Bastgen suggerisce, del resto, di consultare per questo documento il suo libro "La politica ecclesiastica di Dalberg e Napoleone in Germania."
Continuando, citeremo ancora la lettera scritta da Napoleone a Pio VII, da Parigi, il 13 febbraio 1806 e l'altra importantissima, pure di Napoleone, al figliastro principe Eugenio, con la data di Dresda, 22 luglio 1807; la nota inviata al cardinal Caprara da Saint-Cloud il 1 aprile 1808 e il decreto emanato da Saint-Cloud, il 2 aprile del medesimo anno; il decreto del 16 maggio 1809 che in sette articoli ordina la soppressione dello Stato della Chiesa e la sua riunione all'Impero francese; l'"esposé" [sic] dei motivi del senatoconsulto per la riunione dello Stato romano all'Impero; le lettere che Napoleone inviò da Schönbrunn al genera-
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le Miollis (10 agosto 1809) e al conte Fouché (18 luglio 1809); le istruzioni per l'arcivescovo di Tours e i vescovi di Nantes e Trêves datate da Saint-Cloud, 26 aprile 1811.
Quanto ai documenti tratti da altra fonte ricorderemo la lettera di Pio VII a Napoleone del 27 marzo 1808 tolta dai "Documenti relativi alle contestazioni insorte fra la Santa Sede e il Governo francese" del Sala; la nota del cardinal Gabrielli ai vescovi dello Stato della Chiesa del 22 maggio 1808, riprodotta nell'originale italiano dai "Documenti" testé citati e nella traduzione tedesca presa dal libro pubblicato, nel 1814, senza indicazione del luogo, col titolo "Wahrhafte Geschichte der Entführung S. H. des Papstes Pius VII aus Rom am 6. Julius 1809;" infine, la lettera di Pio VII a Napoleone, del 24 maggio 1813, con la quale il Pontefice ritira il suo consenso al concordato di Fontainebleau.
Della letteratura il professor Bastgen si ristringe qui a citare l'opera in tre volumi del Rinieri, "Napoleone e Pio VII" (Torino 1906).
Come già il primo, il terzo e ultimo capitolo del volume si suddivide in due parti, una più breve, che espone le vicende dello Stato della Chiesa dalla sua restaurazione, per opera del Congresso di Vienna, sino alla proclamazione della Repubblica romana, e un'altra più lunga, che continua il racconto sino alla costituzione del Regno d'Italia, alla
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scomparsa dello Stato della Chiesa.
Procediamo, dunque, con ordine.
Con l'articolo 103 del Congresso di Vienna (1815) si era operata a giudizio di Talleyrand, la mossa più ardita e più bella che fosse stata mai fatta al tavolino verde: si erano, cioè, restituiti al Papa i suoi domini quali erano, a un bel circa, prima del trattato di Tolentino. Ma i tempi sono mutati. Svegliato da Napoleone "Re d'Italia", nella coscienza del popolo, il sentimento nazionale; cresciuto, dappertutto, nel cuore delle moltitudini l'amore della libertà, non è facile neanche all'abile ed esperto cardinal Consalvi di adattare il vecchio Stato alle nuove necessità. Né in ogni cosa egli ha, forse, la mano felice. Ad ogni modo la brusca interruzione della sua politica assenata [sic], alla morte di Pio VII (1823), ha effetti perniciosi. La reazione contro le "moderne stravaganze politiche", che toccò il sommo sotto Gregorio XVI, viene inaugurata da Leone XII.
Perduti, in breve tempo, per il moto rivoluzionario, i quattro quinti dello Stato, egli ricorre per soccorso all'Austria, all'Imperatore cui il Papato andava non per ultimo debitore della restaurazione del potere temporale e che aveva il predominio politico nella penisola. L'Austria interviene, ma la Francia di Luigi Filippo protesta, minaccia di occupare Civitavecchia od Ancona, e non paga del ritiro delle truppe imperiali, fa al Papa proposte di riforme, sacrificando alla simpatia per i liberali il principio del non intervento. La Santa Sede si mostra disposta a metter mano alle riforme, ma non si ha pazienza di aspettare. Una
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conferenza dei rappresentanti della Francia, dell'Inghilterra, dell'Austria, della Prussia e della Russia è convocata in Roma: risultato il memorando del 21 maggio 1831. Il testo per la canzone, ricantata sino alla sazietà, delle condizioni intollerabili dello Stato della Chiesa è così scritto dalle grandi Potenze. Alla fine del medesimo anno la rivoluzione risolleva in Bologna la testa. Truppe austriache concorrono a domarla, e ciò ha per conseguenza l'occupazione della fortezza di Ancona da parte dei Francesi. Beninteso per la conservazione della sovranità temporale del Papa! Le truppe straniere rimangono nello Stato della Chiesa sino al 1838, quindi si ritirano. Il moto rivoluzionario è, in apparenza, soffocato: in realtà il fuoco cova sotto la cenere. I patrioti rinsaldano e ingrossano le loro file nell'ombra. Il cardinal Lambruschini, succeduto al Bernetti nella direzione della Segretaria [sic] di Stato, è contrario a qualunque concessione. L'opera delle riforme viene interrotta sino a che, con l'avvento di Pio IX, è ripresa con uno slancio da metter paura non solo al partito degli "zelanti" ma ai Governi degli altri Stati del penisola, all'Austria, che rinforza la guarnigione di Ferrara, e perfino a Mazzini.
"Pio nono" sembra volesse attuare il sogno dei neoguelfi, le idee di Gioberti. In un baleno egli si è guadagnato tutti i cuori, è divenuto l'eroe nazionale. Gli evviva, le feste e le dimostrazioni popolari non hanno fine. Ma già verso il termine del 1847 il Papa è costretto a dire: "Noi sappiamo dove costoro ci vogliono condurre. Noi cederemo sino a tanto che la nostra coscienza ce lo per-
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mette, ma giunti al punto estremo che ci siamo già prefissi, non andremo un passo più innanzi, avvenga che può. E sopraggiunge il 48, coi suoi ribollimenti, con le sue convulsioni, con le sue tempeste."
Pio IX cede una prima, una seconda, una terza volta. Infine, però, deve sconfessare il proclama del comandante delle truppe pontificie, generale Durando, e, nell'allocuzione del 29 febbraio, dichiarare che il Papa non può partecipare alla guerra contro l'Austria, perché, nel suo ufficio apostolico, è tenuto allo stesso amore verso tutti i popoli e le nazioni. Egli pone così il Papato al disopra delle aspirazioni nazionali, ma sigilla al tempo stesso la sorte dello Stato della Chiesa. Pio VII lo aveva perduto perché, come principe della pace, non aveva voluto arrendersi alla volontà bellicosa di Napoleone: Pio nono lo perderà perché non può consentire a quella della propria nazione. Invano egli cerca di attenuare l'effetto dell'allocuzione, invano tenta di risolvere la questione italiana in via pacifica. Troppo tardi. L'impostogli Ministero radicale Mamiani combatte la guerra d'indipendenza contro la sua volontà e senza la sua benedizione. La spada degli Asburgo si dimostra però più forte della sabauda. Gl'insuccessi militari spingono tuttavia il popolo di Roma a chiedere con maggior insistenza al Papa che dichiari la guerra all'Austria. Pio IX è irremovibile. Il Re di Piemonte si reca a Roma per discutere col Pontefice l'idea di una confederazione italiana già prima respinta. Egli pretende, però, di togliere al Papa la direzione degli affari temporali, sicché non si approda ad alcun risultato. Dopo la battaglia di Custoza i ne-
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goziati per la costituzione di una lega norditaliana vengono ripresi. Ma il Ministero piemontese Sostengo-Pinelli vuole soltanto una lega offensiva e difensiva con lo Stato della Chiesa. Pellegrino Rossi, sostituito, frattanto, da Pio IX al Mamiani nella direzione del Governo, scopre l'egoismo del Piemonte e propone una confederazione degli Stati italiani che comprenda pure il Regno di Napoli. La sua proposta non viene accolta. Il 15 novembre egli cade sotto il pugnale omicida e il giorno appresso la plebaglia assedia il Quirinale. Il Papa, per evitare un maggiore spargimento di sangue, dà il suo consenso per un Ministero democratico, ma il 24 novembre lascia Roma e si rifugia a Gaeta per conservarsi piena libertà nell'esercizio del supremo potere della Santa Sede.
In Roma, si costituisce un Governo provvisorio che affida il disbrigo degli affari ad una Giunta di Stato sino al ritorno del Papa, il quale muove protesta su protesta, ma invano. L'8 febbraio 1849 viene proclamata la Repubblica. Nessuno Stato la riconosce, nemmeno la Toscana! Dopo la sconfitta di Carlo Alberto a Novara, Mazzini costituisce in Roma un triumvirato con Saffi e Armellini. Ma l'attenzione di tutto il mondo è ormai rivolta agli avvenimenti di Roma. Da tutte le parti giungono manifestazioni di dolore e di sottomissione a Pio IX, cui perfino principi non cattolici offrono ospitalità nel loro paese. La prima a rispondere all'invocazione di soccorso del Papa è la Spagna. Delle altre Potenze Russia e Inghilterra si dichiarano in principio, favorevoli alla restaurazione del potere temporale; l'Austria è in rottura diplomatica col Vaticano: all'infuori
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della Spagna rimane, dunque, solo Napoli. A poco a poco, però, la situazione del Papa migliora; l'Austria riannoda le relazioni diplomatiche; Gioberti cerca di interporsi mediatore fra il Papa e il Governo repubblicano di Roma e scongiura Pio IX di preferire il soccorso italiano a quello straniero. Ma il disastro di Novara spazza via Carlo Alberto e il suo Ministro. Al Papa può adesso venire aiuto sia dall'Austria, sia dalla Francia, dove Luigi Bonaparte era stato eletto Presidente della Repubblica (20 dicembre 1848) soprattutto con i voti dei cattolici. La maggior parte del Parlamento francese si dichiara favorevole all'intervento. Perfino repubblicani approvano i crediti per la spedizione del generale Oudinot, che il 24 aprile 1849 sbarca in Civitavecchia e il 30 dello stesso mese giunge alle porte di Roma. Sconfitto dapprima da Garibaldi, l'Oudinot riesce, alla fine, a costringere Roma a capitolare e a ristabilire la sovranità del Papa. Pio IX, trasferitosi dapprima a Portici, pubblica, il 12 settembre 1849, il motu proprio col quale riordina tutta l'amministrazione del suo Stato. Quattro editti del cardinal Antonelli traducono poi in atto il motu proprio. Il 12 aprile 1850 Pio IX fa il suo ingresso solenne in Roma.
Il testo della prima parte di questo terzo capitolo, integrato da frequenti e lunghe note a piè di, pagina (per es. sulla circoscrizione amministrativa dello Stato della Chiesa; sugli scritti del Balbo, del Rosmini, di Massimo Taparelli d'Azeglio, del Capponi, del Gioberti; sulla Consulta di Stato; sui vari Ministeri del 1848 sugli editti del cardinal Antonelli), ha qui termine.
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Venendo all'appendice, è naturale che documenti come le disposizioni del Congresso di Vienna (art. 103); il memorando presentato, il 21 maggio 1831, della Conferenza di Roma a Papa Gregorio XVI; la lettera di Mazzini a Pio IX (8 settembre 1847); l'allocuzione "Non semel" del 29 aprile 1848; il manifesto di Pio IX del 1 maggio 1848; le sue proteste contro le violenze del 16 novembre 1848 e la proclamazione della Repubblica romana; l'allocuzione nel concistoro segreto del 20 aprile 1849 (nell'originale latino e nella traduzione tedesca del Karker) e altri simili non manchino. Richiameremo perciò, più specialmente, l'attenzione sulle note diplomatiche ed altri scritti riferentisi all'intervento delle Potenze per rimettere Pio IX in possesso del suo Stato, come le note di lord Palmerston all'ambasciatore britannico a Parigi, marchese von Normanby (5 gennaio, 28 gennaio, 9 marzo e 27 marzo 1849); 1a lettera di Gioberti al ministro plenipotenziario di Spagna in Torino Bertram de Lis (6 gennaio 1849); la nota del principe Schwarzenberg al rappresentante dell'Austria a Parigi (17 gennaio 1849); 1a lettera del generale Cavaignac a Pio IX (3 dicembre 1848) e quelle del Papa al generale (Gaeta 7 e 10 dicembre 1848) ecc. Tutti questi documenti il professore Bastgen li riferisce dalla "Augsburger Allgemeine Zeitung" la quale è pure la fonte cui egli attinge le relazioni interessantissime delle discussioni della questione romana nelle sedute del Parlamento di Parigi, dal novembre 1848 all'ottobre 1849, e, inoltre, alcuni giudizi della stampa italiana, francese e inglese sulla rivoluzione e sulla proclamazione della Repubblica in Roma, sull'intervento francese, sulla lettera di Napoleone a Ney e via di seguito.
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Le vicende dello Stato della Chiesa sino alla costituzione del Regno d'Italia sono, come abbiamo già accennato, l'argomento della seconda parte di quest'ultimo capitolo. In poco più di sei pagine il professor Bastgen riassume i fatti dal 1849 alla fine del 1860.
Col ritorno di Pio nono da Gaeta il Governo del Papa è restaurato per la terza volta nel secolo XIX. L'ordine, nello Stato, è mantenuto esteriormente dalle truppe d'occupazione francesi in Roma e Civitavecchia; dalle austriache nella Romagna e nelle Marche. Negli animi, però, non è tornata affatto la calma: in segreto le sette continuano a ordire febbrilmente. Già nel 1853 la rivoluzione crede di poter ritentare i suoi esperimenti. Invano. Nel 1854 la guerra di Crimea mette per la prima volta il piccolo Piemonte a fianco delle grandi Potenze. Cavour, acconsentendo a inviare un contingente di truppe in Crimea, ha la mira recondita di approfittare di qualche fatto inatteso a vantaggio del moto unitario italiano, che, tutto compreso, doveva attuarsi secondo il programma schizzato da Gioberti nel suo "Rinnovamento civile d'Italia". Al congresso di Parigi Cavour porta sul tappeto la questione italiana consegnando ai rappresentanti d'Inghilterra e di Francia una nota verbale nella quale si propone di secolarizzare le province dello Stato della Chiesa situate tra il Po, l'Adriatico e gli Appennini e di preporre ad esse un vicario pontificio laico. Il rappresentante d'Inghilterra appoggia Cavour, quello della Francia non gli fa opposizione, ma il plenipotenziario austriaco osserva che nessuno dei presenti ha facoltà di discutere
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la questione italiana, ma solo la questione d'Oriente. A Cavour non rimane altro che lamentarsi, in una seconda nota, del fatto che il congresso si sia sciolto senza porre rimedio ai mali d'Italia. In realtà l'astuto Ministro ha ottenuto di rifare dell'italiana una questione del momento, come provano le discussioni della Camera a Torino e a Londra. In pubblico Parlamento Cavour dichiara di aver richiamata l'attenzione d'Europa sulla infelice condizione della penisola, d'essersi accaparrate le simpatie della Francia e dell'Inghilterra. Si lavora a tutt'uomo per assicurarsi l'aiuto della Francia, mentre i rapporti tra Vienna e Torino divengono sempre più tesi. Nel marzo 1857 sono richiamati da una parte e dall'altra gli ambasciatori, ma, all'ultimo momento, chi avrebbe dovuto e potuto meglio dar mano, Napoleone, non si muove. L'attentato d'Orsini gli richiama però alla mente i suoi obblighi. Incontratosi con Cavour, l'Imperatore promette solennemente al Piemonte aiuto armato in una guerra coll'Austria e in caso di vittoria la fondazione di un Regno dell'Italia settentrionale con undici milioni d'abitanti.
Il 1 gennaio 1859 Napoleone apre egli stesso il tempio di Giano, mentre in Torino Re Vittorio Emanuele dichiara che il cielo politico non è senza nubi è che se egli rispetta i trattati non è, però, insensibile al grido di dolore che giunge a lui da tante parti d'Italia. La figlia maggiore del Re è data in sposa al cugino dell'Imperatore, principe Napoleone. Al tempo stesso viene concluso un trattato d'alleanza tra la Francia e il Piemonte e predisposta in Francia la pubblica opinione con l'opuscolo "Napoléon et l'Italie". La speranza in un congresso che dissipasse il membo [sic] adden-
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santesi sfumano: con il grido: "L'Italia libera sino all'Adriatico!" ha principio, in primavera, la guerra. Sennonché vinte le battaglie di Magenta e di Solferino, Napoleone si ferma, rinunzia ad attuare sino in fondo il suo programma e conchiude con l'Imperatore d'Austria l'armistizio di Villafranca (8 luglio 1859). La Lombardia è ceduta alla Francia e da questa all'Italia. Inoltre si conviene di fondare una confederazione italiana sotto la presidenza del Papa. Cavour fingesi offeso e si dimette. Il nuovo Ministero piemontese Lamarmora, in una nota del 23 luglio, si pronuncia contro l'idea di una confederazione.
Gli avvenimenti nell'Italia centrale, durante la guerra, avevano certamente contribuito a far mutar di pensiero Napoleone. Il moto insurrezionale erasi propagato dalla Toscana, da Modena e da Parma nello Stato pontificio. Bologna si era staccata dal Papa e aveva dichiarato la sua unione al Piemonte. La voce di protesta di Pio IX aveva trovato eco soprattutto nella Francia cattolica. L'Imperatore non aveva più potuto, quindi, favorire, indirettamente, il fermento sovversivo nello Stato della Chiesa.
Dopo l'armistizio di Villafranca il Governo francese, con una circolare alle corti europee, espone i motivi che l'hanno indotto alla pace e invita le Potenze, che già presero parte al Congresso di Vienna, a discutere a Parigi, in una conferenza, la sistemazione della questione italiana. Sull'esito di questa conferenza il Piemonte può essere interamente tranquillo. La sua vera intenzione Napoleone l'aveva già manifestata al Papa dopo l'armistizio e accennata in un discorso all'arcivescovo di Bordeaux. La tesi
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"quanto più piccolo il territorio tanto più grande il Papa" egli la fa sostenere e diffondere dallo scritto del De la Guerronière "Le Pape et le Congrès". Pio IX non nasconde il suo sdegno, ma nel "Moniteur" dell'11 gennaio 1860 appare l'ingenua dichiarazione che il Papa non avrebbe pronunziato le parole rivolte nel ricevimento di Capo d'anno al generale Goyon se avesse già ricevuto la lettera di Napoleone del 31 dicembre 1859. Questa lettera giova a Cavour quanto le battaglie di Magenta e Solferino. La Conferenza di Parigi è rinviata a tempo indefinito.
Pio IX non si è però lasciato intimidire nemmeno dalla lettera dell'Imperatore. Egli dichiara di non poter cedere ciò che non gli appartiene, e nell'enciclica del 19 gennaio 1860 afferma che lo Stato della Chiesa è cosa comune di tutti i cattolici e che preferisce morire anziché farselo strappare. Frattanto ha avuto luogo un cambiamento nei Ministeri di Parigi e di Torino: il conte Walewski, contrario all'annessione dei territori italiani al Piemonte, è stato sostituito dal più arrendevole Thouvenel; Rattazzi da Cavour. Inoltre Napoleone ha guadagnato per la sua politica italiana, con il miraggio di un trattato di commercio favorevole, l'Inghilterra, la quale propone al Gabinetto francese di risolvere la questione italiana in un modo affatto conforme alle idee di Napoleone: nelle province insorte si proceda a un plebiscito e se questo riesce favorevole al Piemonte, Francia e Austria si astengano dall'intervenire. I plebisciti hanno luogo e danno il risultato preveduto e desiderato, la Romagna, staccatasi nell'autunno 1859 dal Papa, vota per l'annessione al Piemonte. Re Vittorio acconsente. La Francia riceve in compenso la Savoia e Nizza.
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Della esattezza del giudizio di Pio IX su tutta la commedia politica architettata a'suoi danni si ha adesso la dimostrazione. Già nel maggio 1860 si tenta un'irruzione nello Stato della Chiesa che però fallisce per l'energia del generale Lamoricière. Da Torino si appoggia quanto può aiutare la ribellione col medesimo sistema tenuto verso l'impresa di Garibaldi nel Regno delle due Sicilie. Né Napoleone agisce altrimenti. "Fate presto", fa egli dire, in confidenza, a Cavour, mentre, pubblicamente, invia un ultimato al Governo di Torino, che non se ne inquieta, e avvenuta la minacciata rottura delle relazioni diplomatiche, si contenta di giustificare la propria politica con una nota circolare ai suoi rappresentanti all'estero. Senza dichiarazione di guerra le truppe piemontesi invadono le Marche e l'Umbria dopoché una lettera di Cavour ha ricevuto dal cardinal Antonelli la risposta che si meritava. L'esercito pontificio si batte con valore (battaglia di Castelfidardo) ma è sopraffatto. Le Marche e l'Umbria vengono incorporate al Piemonte. L'11 ottobre Cavour svela in Parlamento, a tutto il mondo, l'ultimo punto del suo programma; la riunione di Roma all'Italia. Pio IX manifesta ripetute volte il suo dolore e la sua indignazione per i tristi avvenimenti, in modo speciale nella solenne allocuzione del 17 dicembre. Tutte le Potenze disapprovano la politica cavourriana, solo l'Inghilterra fa eccezione. (Lettera di Lord Russel a James Hudson, Ministro d'Inghilterra in Torino – 27 ottobre 1860). Ma, perdute le Legazioni, lo Stato della Chiesa, come aveva già detto Napoleone primo, era omai [sic] destinato a scomparire.
L'appendice che segue è la più copiosa di tutto il vo-
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lume, sicché, nostro malgrado, dobbiamo restringerci alle cose principali. Menzioneremo, dunque, oltre agli estratti dal protocollo della Conferenza di Parigi del 1856, la nota di Cavour al conte Walewski e a lord Clarendon del 27 marzo 1856; il rapporto di Cavour alla Camera dei deputati sulle operazioni dei plenipotenziari sardi nel trattato di Parigi (dagli "Annali d'Italia" del Coppi); il memoriale consegnato a Napoleone III da Vincenzo Salvagnoli nel novembre 1858; la proposta di una confederazione italiana fatta dal Governo francese a quello di Torino nell'agosto 1859 (dalla "Storia documentata" del Bianchi); la protesta del cardinal Antonelli del 12 giugno e l'allocuzione di Pio IX del 20 luglio 1859; le lettere di Napoleone III a Pio IX del 14 luglio e del 31 dicembre 1859 e la risposta del Papa a quest'ultima; la circolare di Cavour del 27 gennaio 1870; la lettera del Ministro Thouvenel all'ambasciatore francese a Londra conte Persigny (30 gennaio 1870); la serie di lettere scambiate fra Pio IX e Re Vittorio Emanuele dal dicembre 1859 all'aprile 1870; il memorando del Governo piemontese del 12 settembre 1870; la lettera di Cavour ad Antonelli del 7 settembre 1870 e la risposta del cardinale; la scomunica pronunciata da Pio IX il 26 marzo 1870; le allocuzioni del 28 settembre e del 16 dicembre 1870; la nota del cardinal Antonelli del 4 novembre 1870 al Corpo diplomatico ecc. ecc. Quasi tutti questi documenti sono riportati dalla "Augsburger Allgemeine Zeitung". Una ricca serie delle manifestazioni a favore del Papa; dei giudizi e considerazioni della stampa del tempo sulla questione italiana; sulla politica di Napoleone III, di Vittorio Emanuele, dell'Inghilterra e della Francia; sulla proposta confederazione italiana; sull'enciclica del 19 gennaio
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1860 e sugli opuscoli famosi "La Prussia e la questione italiana", "L'Empereur Napoléon III et l'Italie" e "Le Pape et le Congrès" del Laguéronnière di cui si danno pure i passi principali nella traduzione della "Kölnische Zeitung", e, infine, lo scritto del conte von Rayneval sulle condizioni dello Stato della Chiesa, recante la data del 14 marzo 1856, chiudono il volume.
Il compito che ci eravamo proposti accingendoci a scrivere queste pagine – non di una recensione critica, ma esclusivamente di un cenno informativo sul disegno, il carattere generale e il contenuto del primo volume, perché possa farsene un'idea anche l'ignaro della lingua tedesca e chi non ha tempo di leggerlo da capo a fondo, – è così terminato. Ma anche dal poco che siamo venuti dicendo l'utilità e l'opportunità straordinarie dell'opera del professor Bastgen nell'ora presente appariranno, speriamo, ben chiare.
La pubblicazione del secondo volume, di cui non mancheremo d'intrattenerci, è, come, ci occorse già di avvertire, imminente.

[Fol. 39v:] 1) "La questione romana. Documenti e voci editi dal professor dottor Hubert in Brisgovia, Libreria editrice Herder, 1917, vol. I, pag. XIII - 467.
Empfohlene Zitierweise
[Erzberger, Matthias], La questione Romana. Cenno informativo sul disegno e il carattere generale dell'opera del prof. dott. Hubert Bastgen e sul contenuto del primo volume vom vor dem 30. Dezember 1917, Anlage, in: 'Kritische Online-Edition der Nuntiaturberichte Eugenio Pacellis (1917-1929)', Dokument Nr. 10037, URL: www.pacelli-edition.de/Dokument/10037. Letzter Zugriff am: 27.12.2024.
Online seit 24.03.2010.