Dokument-Nr. 8618
Erzberger, Matthias: L'Appello Pontificio per la pace e i Protestanti e i socialisti tedeschi, 11. Oktober 1917
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paesi della quadruplice alleanza ed ha fatto crescere a dismisura l'autorità morale del Papa e del Papato nel giudizio di tutte le classi della popolazione. La Santa Sede è divenuta da noi innegabilmente un'istituzione che sta al disopra di tutte le contese temporali. Questo spiega la buona calda accoglienza avuta in Germania dall'appello dal Papa pure fra i protestanti. Critiche negative non sono, si, mancate da parte di essi, come non ne sono mancate di cattolici colti fra i quali non pochi propendono per una pace imposta colla forza, né v'ha poi dubbio che la contrarietà all'idea della pace per via d'intesa coincide nei pangermanisti e nei protestanti con la contrarietà alle proposte del Sommo Pontefice. Tutto sommato, però, i liberali, quella classe di cittadini, cioè, in cui il protestantesimo "liberale" ha maggior seguito (il protestantesimo ortodosso è, anche politicamente, conservatore simpatizza, quindi, in politica con i pangermanisti) hanno accolto e salutato le proposte del Papa col massimo rispetto e la massima considerazione per la sua persona e la sua opera a favore della pace. E proprio essi, anzi, se criticano l'appello di pace di Benedetto XV., prendono le mosse da un concetto esagerato, da una considerazione eccessiva del Papato.Tipico, in questo senso, è un articolo del noto professore di diritto all'Università di Berlino, consigliere intimo Joseph Kohler, ("Tag", N° 201), il quale sostiene che il Santo Padre, in forza del suo altissimo ufficio, avrebbe dovuto erigersi a giudice del mondo, risolvere la contesa con ragioni persuasive e
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ristabilire la pace.In altre parole il Kohler esige che il Papa giudichi la guerra partendo dall'idea della giustizia, determini la ragione e il torto e spiani così la via alla pace. Il Papa, secondo il Kohler, avrebbe potuto giungere a questa decisione sia
1) concependo la guerra come un giudizio di Dio sui popoli nel quale la vittoria rappresenta il trionfo del diritto e fa legge; questa è la situazione che sola può riconoscersi alle Potenze centrali e il loro modo di vedere;
2) sia deducendo la giustizia della guerra dalla legittimità delle cause. Da questo punto di vista, confortato dall'opinione di san Tommaso e dei maestri di diritto cattolici, il Papa avrebbe dovuto sollevare e risolvere la questione della guerra giusta e ingiusta. Dall'esame spassionato di tutti i documenti accessibili, concernenti l'origine della guerra, egli sarebbe giunto indubbiamente alla conclusione che la guerra, per quel che riguarda i Tedeschi, è una guerra difensiva e quindi un "bellum justum" nello stretto senso della parola.
Contro questa opinione del Kohler è insorto il professor Mausbach, insegnante di teologia morale in Münster. Le sue diffuse considerazioni sono state pubblicate dal "Hochland" (fascicolo d'ottobre) e riprodotte quindi da numerosi giornali quotidiani.
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Il Mausbach nota anzitutto che la dottrina che la guerra è un giudizio di Dio fu sempre condannata dalla Chiesa anche nel medioevo. Infatti, secondo questa dottrina, tutte le vittoriose guerre di conquista dei Romani come tutta la fortunata politica conquistatrice dell'Inghilterra dovrebbero essere giuste e accette a Dio, sicché non potrebbe più oppugnarsi la sentenza famigerata che, nelle relazioni fra i popoli, la forza prevale sul diritto. La guerra mondiale si è rivelata, di fatto, un terribile giudizio di Dio, ma questo operare della giustizia nel corso della guerra è connesso intimamente con la legittimità della causa di essa.
Il Mausbach fa notare, quindi, l'impossibilità in cui il Papa si trova di pronunziare un giudizio di Dio sulla semplice testimonianza dei fatti, giacché questi fatti si vengono ancora svolgendo; e osserva inoltre che, per il medesimo motivo, non si può dire nulla di decisivo in quanto alla formazione del diritto internazionale.
In quanto alla seconda pretesa che Kohler ha dinanzi al Papa quale arbitro mondiale, esaminar, cioè, la guerra e la giustezza dei moventi che la determinarono; Mausbach rileva, anzitutto, non potersi negare che Benedetto XV. non prende più nel consesso dei principi e dei popoli la medesima posizione che ebbe, per esempio, Innocenzo III; il quale, data l'unità di fede del medioevo, fu considerato e riconosciuto generalmente qual arbitro anche nelle questioni politiche toccanti la morale pubblica. Oggi i popoli protestanti e scismatici oppongono al Papato una profonda sfiducia; nei grandi paesi cattolici,
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come in Francia e in Italia, si trovano al timone forze areligiose, dominate dalla loggia massonica. Data questa situazione, se il Papa si fosse fatto innanzi qual arbitro mondiale, secondo il concetto del Kohler, sarebbe andato incontro all'insuccesso fino dal primo momento. Il solo nome "arbitro mondiale" avrebbe incitato tutti i nemici del Papa e della Chiesa a protestare altamente ed a muovere le più acerbe critiche. Quei popoli, poi, che fossero riconosciuti colpevoli nella sentenza pontificia, protesterebbero altamente ed a maggior ragione. L'odio nazionale che oggi divide i popoli, si rivolgerebbe, rinforzato, contro "l'arbitro parziale"; e la Chiesa verrebbe a soffrirne gravissimi danni in tutta la sua compagine. Entrambe le vie additate da Kohler, sulle quali il Papa avrebbe dovuto esercitare la sua saggezza quale arbitro mondiale – conclude Mausbach – sono dunque impraticabili. Mausbach passa, infine, a dire quale è il vero scopo dell'appello di pace del Santo Padre.Benedetto XV. non voleva, col suo appello, atteggiarsi a giudice o a paciere; egli voleva soltanto sottoporre ai Capi degli Stati belligeranti preghiere, avvertimenti e proposte; nonché un invito paterno per scongiurarli, in nome del Divino Redentore, del Principe della Pace, di entrare finalmente, fermi rimanendo i princìpi di diritto, sul terreno dell'accomodamento e della mediazione della pace. Anzitutto non si deve perder di vista – scrive Mausbach – che la seconda intenzione del Papa tende a rimettere in contatto l'un l'altra le nazioni divise dalle ostilità e di avviare trattative e scambio di pensieri fra i vari Governi. Il Papa, colla sua lettera del 28 giugno 1915, si
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era limitato a questo intento e vi aveva aggiunto soltanto il "pensiero generale che i negoziati non dovessero mirare all'annientamento all'umiliazione e all'aggiogamento" di una nazione, perché altrimenti la pace non sarebbe stata durevole. Soltanto la crescente miseria della guerra ha costretto il Papa di passare, adesso, a proposte più concrete. Tuttavia neanche questa volta egli vuole creare o dettare la pace, sibbene soltanto suggerirla e offrirsi qual mediatore; egli vuole che i principi ed i Governi si decidano a concluderla e cerca di tener desto in essi il sentimento della immane responsabilità che grava le loro spalle. Il suggerimento pontificio – continua Mausbach – non ha il carattere di una sentenza sovrana, di un "intervento gerarchico"; esso non è che un invito amichevole, paterno, stringente. Esso tocca, anche questa volta, i particolari solo quel tanto assolutamente necessario. Le proposte del Pontefice "sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, mentre lasciano ai governanti il compito di precisare e completare i capisaldi stessi."Mausbach osserva che il Papa, dicendo doversi soddisfare nella conclusione della pace "le aspirazioni dei popoli nella misura del giusto e del possibile", dimostra di non essersi dimenticato nemmeno del problema delle nazionalità; problema giusto e riconosciuto fin dal 1915. Rileva, quindi, che lo stesso vincitore non va libero dalla responsabilità che gli incombe davanti a Dio, davanti all'umanità e davanti al proprio popolo. Anche il vincitore e, in generale, chi fa la guerra, non deve pensare soltanto a sé, ma anche agli interessi e al bene della gene-
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ralità. Questo principio fondamentale traspare anche dalla descrizione che il Santo Padre fa delle sofferenze terribili, dei sacrifici e delle distruzioni causati dalla conflagrazione Mondiale. Anche l'offerta tedesca di pace, del 12 decembre 1916, – osserva Mausbach – conteneva un simile impressionante richiamo alle orribili devastazioni e ai tanti dolori determinati dalla guerra.Nella seconda parte della sua dissertazione ricca di pensiero, il Mausbach si richiama ai passi positivi contenuti nell'Appello pontificio, toccanti la futura riedificazione del diritto internazionale; e dice che sarebbe tempo, dopo i duri insegnamenti della guerra mondiale, abbandonare le esagerazioni del principio della forza, dell'assolutismo statale e del positivismo del diritto, per cercare un'unione più stretta col concetto cristiano e naturale dell'unità e della immutabilità di certe basi fondamentali del diritto. Si può, ciò facendo, prendere in considerazione le proposte fatte dal Papa e da esso giudicate come la base di una vera e durevole intesa dei popoli; proposte miranti ad istituire un tribunale arbitrale avente missione pacificatrice, a far sì che subentri la forza morale del diritto alla forza materiale delle armi. Mausbach vede confermato il suo pensiero nella nota di risposta del Governo germanico all'Appello del Papa, e esprime, alla fine della sua dissertazione e con parole commosse, la speranza che si abbia a venire ad una pace degna, rinnovante i singoli Stati, ed il mondo.
Più Giusto e più ragionevole di Kohler, al
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quale è stato dedicato l'articolo illustrativo di Mausbach, è, dinanzi alla manifestazione di pace del Papa, il professore protestante M. Rade, (Marburgo), il quale nella rivista "Il mondo cristiano" (No 40 del 4 ottobre 1917), si esprime come appresso. Anzitutto il Rade osserva che una formula di pace comprendente in sé lo "Status quo ante" è assolutamente impossibile; perché è impossibile ripetere più tardi quello che fu una volta; impossibile, dopo un incendio mondiale di tali proporzioni, ricostruire quello che esso incendio ha distrutto. Ma nemmeno la scala dottrinario-formalistica dell'equilibrio delle Potenze può essere il fine di guerra tedesca; perché una guerra come questa domanda necessariamente scopi che creino nuove realtà, dacché le altre sono andate distrutte.Queste realtà sono state indicate decisamente e chiaramente dalla Nota pontificia; la quale ha, – come Rade dice giustamente, – esposto alcuni grandi pensieri comprensivi, pratici invero, ma, anzitutto, vivi e radicati nella Etica, e che dalla Etica chiedono d'entrare nella politica. A ragione il Rade rileva che l'Intesa presentò nel passato appunto questi fini etici come le sue essenziali e più importanti richieste; ma che, non appena questi medesimi fini di guerra furono propugnati dal Papa e accettati dalle Potenze Centrali, dalla Bulgaria e dalla Turchia, Inglesi e Americani non hanno voluto saperne più nulla. Eppure, – dice il Rade, – prima o poi anche l'Intesa dovrà ben calpestare il terreno di questi fini di guerra etici. Se si deve venire alla pace, – prosegue, – bisogni cercar prima per essa una certa base morale. E questa base
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consisterà nel mettersi d'accordo su certi fini di guerra che assolutamente stanno al di là della guerra, al cui servizio deve però entrare la conclusione della pace, pur con tutte le sue questioni singole, impiglianti e determinanti confusione. Decidere su tali questioni sarà certamente compito arduo. La contradizione e il contrasto degli interessi è tanto grande in ogni singolo caso, che ogni volta si toccherà questo o quell'argomento può ben darsi che da una parte o dall'altra si abbiano tutti i motivi di troncare i negoziati e di appellarsi nuovamente alla forza della spada. Giunti, però, una volta tanto, ad un concetto comune, grande e reale della pace edificata su base morale, allora – scrive Rade – i negoziati possono cominciare senza il pericolo che al più piccolo intoppo creato da singole questioni secondarie, i plenipotenziari si abbaruffino e si separino. Disarmo, tribunale arbitrale, libero mare; ecco i veri intenti che domandano da entrambe le parti un lavoro profondo e sistematico. Rinferendosi alla Nota del Papa, Rade esclama: "noi salutiamo il nuovo spirito di cui parla il Cancelliere tedesco; quello spirito che sempre ha animato noi."Nella politica dei fini di guerra, i Pastori protestanti in Prussia, specialmente quelli ortodossi, si appoggiano sovente ai pangermanisti. I giornali socialisti registrano spesso e con soddisfazione espressioni di Pastori protestanti che domandano una pace basata sulla forza; espressioni dirette, quindi, contro la politica pacifista del Governo, cosi come essa si è
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sviluppata in base alla "risoluzione" del Reichstag del 19 luglio, e documentata quindi colla risposta tedesca a Sua Santità. È però sintomatico che sotto l'influsso della manifestazione pontificia si vada rivelando anche nei circoli dei Pastori evangelici il bisogno di far derivare, anche da parte protestante, dagli intendimenti cristiani il pensiero di una pace di accomodamento, e di mettere in vista questo pensiero. Può darsi che in tutto ciò non sia estraneo il desiderio di mettere una tendenza evangelica corrispondente a fianco del tentativo cattolico di ripristinare l'internazionale cattolica. Notevole è, a questo rapporto, la seguente dichiarazione di cinque parroci protestanti berlinesi:"Nel mese commemorativo della Riforma noi sottoscritti parroci berlinesi, d'accordo con molti uomini e donne evangelici, ci sentiamo obbligati a fare la seguente dichiarazione, che deve servire, contemporaneamente, di risposta alle molte manifestazioni provenienti da paesi neutrali.
Noi protestanti tedeschi, coscienti dei comuni beni cristiani e degli intenti di tutti i correligionari – anche di quelli degli Stati avversari, – offriamo a tutti la mano fraterna.
Noi scorgiamo le profonde cause di questa guerra nelle forze anticristiane che dominano la vita popolare; nella sfiducia, cioè, nell'idolatria della violenza, nella cupidigia; e vediamo la pace tanto desiderata solo in una pace raggiunta in base all'accomodamento e alla riconciliazione.
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Noi intravediamo il più grave ostacolo per un sincero riavvicinamento dei popoli, soprattutto nel nefasto dominio della menzogna e della frase, che tace o svisa la verità e divulga le illusioni; e chiamiamo tutti quelli che desiderano la pace, in tutti i paesi, a combattere risoluti questo ostacolo.
Considerata la terribile guerra, la nostra coscienza ci impone il dovere di tendere, con tutte le nostre forze, con ogni energia e continuamente, in nome del Cristianesimo, a che la guerra sparisca dal mondo qual mezzo di composizione delle vertenze fra i popoli."
Teoreticamente la pratica iniziativa di pace del Papa, dovrebbe significare un grave colpo per il socialismo. Una gran parte dei socialisti – su questo non evvi dubbio alcuno – avrebbero veduto più volentieri il socialismo fautore della idea di pace e forse anche mediatore della medesima al posto del Papa. Ma i socialisti ragionevoli debbono ben dirsi che lo spirito internazionale socialista non è in grado di por mano praticamente alla pace, perché in molti paesi dell'Intesa il socialismo è degenerato in nazionalismo. Infatti i socialisti francesi, inglesi ed americani, non hanno opposto resistenza alcuna contro la tendenza imperialistica della gran massa dei loro popoli; al contrario, essi sono stati da questa soffocati, in modo da poter dire che il socialismo internazionale è oggi il fautore dell'antisocialistica idea della guerra. È sintomatico che al socialismo non sia
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riuscito di condurre a porto la conferenza di Stoccolma. In Germania i socialisti vedono con rincrescimento questo stato di cose; ma il pensiero della pace e la pace stessa è per essi un bene così grande, che il loro rincrescimento per la inanità socialista non impedisce loro di salutare francamente il passo del Papa. E in questo – bisogna dirlo – essi si distingono meritoriamente dai loro compagni dell'Intesa. Notevole è, a questo rapporto, un articolo apparso nella rivista settimanale socialista "Die Glocke" (No 26), intitolato "Il Papato e la pace mondiale" uscito dalla penna del deputato socialista al Reichstag, Meerfeld. I seguenti passi dicono chiaramente qual sia il contegno dei socialisti tedeschi dinanzi alla Nota del Papa:"Dal 1870, il Papa non ha sugli uomini che una forza spirituale; ma questa forza è grandissima. In quanto poi all'organizzazione la Chiesa cattolica è davvero un miracolo. Mirabili ingegni, conoscitori profondi dell'umana natura, hanno, in un lavoro di millenni, compiuto un'opera le cui forme domano lo spirito, e che abbraccia quasi tutto il mondo. Nessun'altra organizzazione internazionale sarebbe potuta riuscire, già nel secondo mese della guerra mondiale, a riunire in consigli pacifici, membri dei due gruppi di Potenze. La Chiesa cattolica lo poté nel Conclave del settembre 1914, dal quale il marchese della Chiesa riuscì eletto Papa. Il dominio delle anime è, invero, non soltanto un resultato di forme artistiche d'organizza-
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zione, ma lo si deve, in misura ancor maggiore, ai bisogni dell'animo delle grandi masse umane; a quel sentimento religioso, qualunque sia la sua tendenza, che tutti quanti i razionalisti non sono riusciti a dominare. L'internazionalismo è soltanto indebolito, temporaneamente, ma niente affatto distrutto.Il Vaticano ha avuto in ogni tempo abilissimi diplomatici; lo stesso Pontefice Benedetto XV. è espertissimo nell'arte diplomatica, e non ha certamente iniziato a caso la sua azione di pace. Se questa conducesse all'intento voluto, chi vorrà contendere che Papato e Chiesa allibrerebbero uno dei loro più grandi successi; tale da aver ben motivo di trionfare, e da rinsaldare enormemente la potenza dell'organizzazione mondiale cattolica?
Alla Chiesa ne verrebbe indubbiamente un guadagno immenso, se il Vaticano riuscisse nella sua opera di pace; se, cioè, l'antica internazionale si dovesse rivelare, nella soluzione di una questione storico-mondiale, più forte e più fortunosa dell'internazionale nuova; se Roma dovesse vincere Stoccolma. Quegli che riporterà ai popoli tormentati le benedizioni della pace, non solo continuerà a vivere, onorato, nella storia; ma ne riporterà anche immediati abbondantissimi frutti. Il Papato ha occhi acutissimi che portano lontano. Al socialismo francese anticlericale arrabbiato già la prospettiva di un aumento certo della potenza della Chiesa dovrebbe aprire gli occhi; rimuoverlo dal suo nazio-
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nalismo bislacco e dalle sue picche stravaganti, e non chiudergli più oltre la via di un'intesa onesta coi socialisti delle Potenze Centrali."Alla fine del suo articolo il deputato Meerfeld dice:
"Ma noi, che non abbiano saputo terminare ancora l'opera di Stoccolma, vediamo con una certa vergogna l'internazionale cattolica afferrar la gomena della nave della pace e cercare di condurla in sicuro porto. Verrà, infine, il tempo in cui il potente bisogno di pace, l'ardente desiderio che il brutalissimo assassinio umano cessi, ricaccerà dentro di noi qualsiasi altro sentiménto; e riuscirà alla fine arte diplomatica della Santa Sede, di porre un termine a questa vergogna della civiltà odierna, a questo sbranamento di popoli: allora noi vedremo senza invidia Roma celebrare un grande trionfo, e aggiungere al libro millenario della sua storia un'altra pagina nella quale verrà scritta a lettere d'oro questa grande opera della pace."
11. 10. 1917.