Dokument-Nr. 990

[Czernin von und zu Chudenitz, Ottokar Theobald Otto Maria Graf]: Il Conte Czernin sugli scopi di guerra e di pace, vor dem 05. Oktober 1917

Il presidente dei ministri Wekerle diede il 2 ottobre un pranzo a Budapest, in onore del ministro degli esteri, Conte Czernin. Questi tenne un lungo discorso nel quale, dopo poche parole d'introduzione, parlò della splendida situazione militare delle Potenze Centrali e rilevò la grande parte che specialmente i figli d'Ungheria hanno avuto ai gloriosi combattimenti. Passò, quindi, a trattare della situazione politica esprimendosi come appresso:
"Al grande statista francese Talleyrand si ascrive la sentenza: 'Le parole servono a nascondere il pensiero'. Può darsi benissimo che questa sentenza fosse giusta per la diplomazia del suo secolo; per i tempi odierni potrei difficilmente immaginare un motto meno adattato di questo. I milioni di uomini che combattono, nelle trincee e in patria, vogliono sapere perché lo fanno, essi hanno il diritto di apprendere perché la pace, che tutto il mondo desidera, non è ancora venuta.
Quando assunsi la mia carica, approfittai della prima occasione per dichiarare apertamente che noi non volevamo procedere a violazioni, ma che nemmeno ne avremmo sopportate; e aggiunsi che eravamo pronti ad entrare in trattative non appena i nostri nemici avessero accettato il punto di vista di una pace d'accomodamento. In tal modo credo di avere esposto chiaramente, se anche succintamente, i fini di pace della Monarchia austro-ungarica. Per questo mio linguaggio aperto non mi sono mancati i biasimi in patria e all'estero amico; ma gli argomenti adoperati per biasimarmi mi hanno invece confermato nella mia opinione, facendola intravedere più giusta che mai. Di quello che dissi non ritiro una parola, persuasissimo che la schiacciante maggioranza, qui e in Austria, approva il mio punto di vista. Ciò premesso, sento
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oggi l'imperioso bisogno di dichiarare pubblicamente come è che il Governo I. e R. si immagina l'ulteriore sviluppo dei rapporti giuridici europei, oggi completamente distrutti.
In grandi contorni il nostro programma sulla ricostruzione dell'ordine mondiale – più giustamente costruzione – è esposto nella nostra risposta all'appello del Santo Padre. Oggi non si può trattare dunque che di completare questo programma e di spiegare soprattutto quali sono state le considerazioni che ci hanno determinato ad esporre i nuovi principi fondamentali, sconvolgenti il sistema attuale. Ad ampie cerchia [sic] di persone apparirà sorprendente e forse incomprensibile che gli Imperi Centrali e specialmente l'Austria-Unghera [sic], vogliano rinunciare in avvenire agli armamenti, visto che proprio nella loro forza militare hanno trovato, in questi gravissimi anni, protezione contro una superiorità numerica schiacciante.
La guerra ha creato non solo nuovo [sic] fatti e nuovi rapporti, ma ha condotto a nuovi riconoscimenti che hanno scosso la base della politica europea passata. Fra tante altre tesi politiche è svanita soprattutto quella che asseriva esser l'Austra[sic]-Ungheria uno Stato morituro. Fu il dogma dell'imminente sfacelo della Monarchia quello che rese sempre più difficile la nostra posizione in Europa, e dal quale nasceva tutta l'ignoranza per i nostri bisogni vitali. Se in questa guerra ci siamo rivelati compagine sanissima, e, per lo meno, alla medesima altezza delle altre compagini statali ne consegue che possiam calcolare, da ora in poi, in un pieno intendimento dei nostri bisogni vitali in Europa, e sperare che sian distrutte le speranze di schiacciarci colla forza delle armi. Fino a che non avevamo portato questa prova non potevamo rinunciare alla protezione degli armamenti; non potevamo esporci ad un trattamento sfavorevole delle nostre questioni vitali da parte di un areopago influenzato dalla leggenda del nostro imminente sfacelo. Ma dal momento in cui la prova è stata prodotta, noi siamo al caso, di deporre le armi simultaneamente con i nostri nemici, e di regolare le nostre eventuali controversie
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pacificamente mediante un tribunale arbitrale. Questo nuovo riconoscimento, che ha dovuto ben lottare per affermarsi nel mondo, ci offre la possibilità di accettare non solo il pensiero del disarmo e dell'arbitraggio, ma di impegnare – come facciam ormai da molto tempo, e come loro sanno – tutte le nostre forze perché questo pensiero si concreti.
Dopo una siffatta guerra l'Europa deve essere messa, assolutamente, su una nuova base internazionale di diritto, che offra la garanzia della durata. Questa base di diritto deve essere nella sua essenza, come la vedo io, di natura quadruplice.
Deve, anzitutto, offrire la sicurezza che non vi possa più essere una guerra di rivincita da nessunissima parte. Una sola cosa vogliamo aver almeno raggiunto da lasciare in eredità ai nostri discendenti, questa: che ad essi siano risparmiati gli orrori di una tragedia così orribile. Col solo spostamento di potenza degli Stati belligeranti ciò non può esser raggiunto. La via per giungere a questo intento è esclusivamente quella sopra citata: il disarmo internazionale e il riconoscimento della procedura arbitrale. È superfluo dire che la misura del disarmo non debba essere imposta soltanto ad uno Stato o ad un gruppo di Potenze, ma a tutti; e che deve comprendere nella medesima misura e logicamente gli armamenti in terra, in mare e nell'aria. Ma la guerra, come strumento della politica, deve essere combattuta. Su base internazionale ed internazionale controllo, dovrà effettuarsi un disarmo generale, successivo ed uniforme di tutti gli Stati del mondo; e le armi per la difesa limitate al puro indispensabile. So benissimo che è oltremodo difficile raggiungere questo intento e che la via che vi conduce è irta di difficoltà, lunga e spinosa. Pur tuttavia son fermamente persuaso che, a spinte o sponte, il mondo marcerà per questa via senza curarsi di chi lo ritiene desiderevole o no. È un grand'errore di credere che il mondo, dopo questa guerra, possa ricominciare dal punto dove
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cessò nel 1914. Catastrofi come la presente non si rovesciano sul mondo senza lasciarvi le tracce più profonde; e la più orribile sventura che ci potesse capitare sarebbe quella che, dopo la conclusione della pace, dovesse continuare la gara degli armamenti, perché ciò rappresenterebbe la rovina economica di tutti gli Stati. Già prima di questa guerra gli aggravi militari erano schiaccianti; dopo, data la libera concorrenza degli armamenti, i gravami per gli Stati sarebbero insopportabili. L'attuale conflitto ha insegnato che si dovrebbe calcolare su una moltiplicazione degli armamenti passati. Il bilancio militare annuale di tutte le grandi Potenze dovrebbe ammontare a molti miliardi, ciò che è assolutamente impossibile. Considerati i gravami che tutti gli Stati belligeranti dovranno in ogni modo sopportare dopo la conclusione della pace, certe spese significherebbero, ripeto, la rovina dei popoli. Ritornare agli armamenti relativamente piccoli che si avevano prima del 1914 sarebbe assolutamente impossibile per un singolo Stato; poiché verrebbe a trovarsi, dirimpetto agli altri, in questa condizione di inferiorità: che la sua forza militare non varrebbe nulla e le sue spese sarebbero, quindi, assolutamente inutili. Se ci riuscisse, poi, di ritornare tutti al livello, relativamente basso, degli armamenti del 1914, ciò significherebbe, è vero, la diminuzione internazionale degli armamenti, ma non avrebbe senso alcuno se non si intendesse di procedere ancora e di disarmare effettivamente. Per uscire da questa strettoia non c'è che una via: il completo disarmo internazionale.
Le flotte formidabili mancheranno al loro scopo quando gli Stati del mondo avranno garantito la libertà dei mari. Gli eserciti dovranno essere ridotti al limite minimo, necessario per il mantenimento dell'ordine interno.
Ma tutto ciò è possibile soltanto sulla base internazionale, cioè a dire sotto il controllo pure internazionale. Ogni
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Stato dovrà rinunciare un poco alla sua indipendenza per assicurare la pace del mondo. Probabilmente la generazione odierna non si ritroverà a vedere la fine di questo grande movimento pacifista; poiché esso non potrà imporsi che lentamente; ma io ritengo nostro dovere metterci alla testa del medesimo e di fare quanto è umanamente possibile per affrettarne il compimento. Alla conclusione della pace i suoi principi fondamentali dovranno essere già fermati.
Se il primo principio è quello dell'arbitraggio internazionale obbligatorio e del disarmo generale in terra, il secondo è quello della libertà dell'alto mare e del disarmo navale. Io dico intenzionalmente "alto mare" poiché non estendo il pensiero agli stretti, riconoscendo che per questi dovranno valer regole e prescrizioni tutte speciali. Messi in chiaro e fissati i due primi punti, viene a mancare qualsiasi motivo per le garanzie territoriali, e questo è il terzo principio fondamentale della nuova base giuridica internazionale. Il nobile appello che Sua Santità il Papa ha rivolto a tutto il mondo, è basato su questo pensiero. Noi non siamo entrati in guerra per procedere a conquiste, né abbiamo intenzione di violare chicchessia. Se il disarmo internazionale, che desideriamo di tutto cuore, accettato che sia dai nostri nemici odierni diverrà un fatto reale, non ci sarà più bisogno di alcuna garanzia territoriale; e potremo, in questo caso, rinunciare ad ampliamenti della Monarchia austro-ungarica, a patto che, naturalmente, anche il nemico abbia sgombrato completamente il nostro proprio territorio.
Il quarto principio fondamentale da osservarsi per garantire, dopo un'era così dolorosa, lo sviluppo pacifico del mondo, è la libera attività economica di tutti, è il bando assoluto di una futura guerra economica. Una guerra economica deve essere assolutamente esclusa da qualsiasi combinazione avvenire. Prima
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di concludere la pace, noi dobbiamo aver la sicurezza positiva che i nostri odierni avversari hanno rinunciato a un cotale pensiero.
Questi sono i principi fondamentali del nuovo ordinamento mondiale, così come io li vedo, e basantisi tutti sul disarmo generale. Anche la Germania, nella sua risposta all'appello pontificio, ha dichiarato espressamente di approvare l'idea del disarmo generale, e persino i nostri avversari odierni hanno, almeno in parte, riconosciuto questi principi. Nella maggior parte dei punti controversi io sono di opinione diversa di quella del signor Lloyd George; andiamo però completamente d'accordo sul punto che non debba esservi mai più una guerra di rivincita.
La questione degli indennizzi, avanzata continuamente dall'Intesa, viene a rivestire un carattere davvero curioso se si pensa alle devastazioni che le loro armate hanno operato in Galizia, in Bucovina, nel Tirolo, lungo l'Isonzo, nella Prussia Orientale, nei territori turchi e nelle Colonie tedesche. Intendono gli avversari di rifarci per tutte queste rovine, oppure si ingannano tanto grossolanamente nel giudizio sulla nostra psiche, da sperare in un indennizzo unilaterale? Ci sarebbe quasi da credere a questo, stando ai discorsi uditi ultimamente. È noto come l'Intesa usi lardellare le sue dichiarazioni programmatiche con paroloni altisonanti. Io sono, in questo, di tutt'altra opinione. Credo che la forza di uno Stato non debba ricercarsi nelle parolone pronunciate dai suoi governanti, ma che, al contrario, stia in rapporto diametralmente opposto a quelle. Questa guerra non verrà certo decisa colle frasi a tonfo. Che cosa non abbiamo ormai sentito dire in questi anni di guerra? Prima, la Germania sarebbe stata annientata e la Monarchia austro-ungarica smembrata; poi, venuti a più miti consigli, ci si contentò di rimaneggiare i nostri rapporti interni; attualmente sembra che i nemici si trovino
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in una terza fase, nella quale essi non domandano più, come condizione di pace, né la nostra testa né il diritto statale di disporre a modo nostro della nostra sorte, ma chiedono, più o meno grandi rettificazioni di confine. Seguiranno a questa altre fasi, per quanto la maggioranza delle popolazioni in tutti i paesi nemici ci trovi già oggi sulla base di quella pace d'accomodamento che noi proponemmo per i primi un anno fa nella Monarchia austro-ungarica, e i cui principi fondamentali ebbi ultimamente occasione di trattare.
Noi non cerchiamo la nostra forza nelle parole tonanti; noi la cerchiamo e la troviamo nelle nostre gloriose armate, nella saldezza delle nostre alleanze, nella resistenza del nostro paese e nella ragionevolezza dei nostri fini di guerra. E siccome non domandiamo utopie, e ogni cittadino della Monarchia, al campo o in patria, sa per che cosa combatte, siamo certi di raggiungere il nostro intento. Noi non siam tempre da farci piegare; noi non siam tempre da farci annientare. Coscienti della nostra forza e con chiara visione di quel che vogliamo raggiungere, ma anche di quello che dobbiamo raggiungere, procediamo diritti per la nostra via. Noi altri della Monarchia austro-ungarica non abbiamo avuto bisogno, come i nostri nemici, di percorrere a ritroso quella linea delle pretese, che dall'annientamento dell'avversario, scende, giù giù, attraverso fasi più mansuete, a più miti consigli; ma abbiamo dichiarato fin dal primo momento in modo non ambiguo il nostro intento, e siam rimasti ad esso fedeli. Da quale parte, in questo modo di agire, sta la forza e da quale la debolezza, lo lascio tranquillamente al giudizio del mondo.
Ma nessuno si inganni pensando che questo nostro programma, così pacifico e così moderato, possa essere da noi mantenuto in ogni caso. Se i nostri nemici ci costringeranno a continuare la guerra, noi saremo costretti a rivederlo ed a chiedere, da parte nostra, compensi. Io parlo per il momento attuale, per-
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ché ho la persuasione che il programma potrebbe realizzarsi sulla base della pace mondiale; ma se la guerra dovesse proseguire noi vogliamo avere le mani libere. Io sono fermamente convinto che fra un anno noi ci ritroveremmo in una situazione incomparabilmente più vantaggiosa di quella odierna, tuttavia considererei un debito di continuare la guerra per vantaggi materiali o territoriali, anche un sol giorno di più di quel che domandano l'integrità della Monarchia e la sicurezza del futuro. Sol per questa ragione io sono stato e sono tuttora per una pace d'accomodamento; ma se i nostri nemici non vogliono udire, se ci costringono a continuare questa carneficina, noi ci riserviamo la revisione del nostro programma e la libertà delle nostre condizioni.
Io non sono troppo ottimista riguardo all'inclinazione dei nemici di concludere una pace d'intesa sulla base suddetta. La schiacciante maggioranza di tutto il mondo vorrebbe pervenire a questa nostra pace d'accomodamento, ma vi son pochi che pur riescono ad impedirla. In questo caso noi proseguiremo nella nostra via a sangue freddo e coi nervi tranquilli. Noi sappiamo che possiamo resistere, al campo e in patria. Giammai noi ci abbattemmo nei momenti gravi, né fummo baldanzosi nella vittoria. La nostra ora verrà e con essa la sicura garanzia di uno sviluppo libero e pacifico dell'Austria-Ungheria."
Empfohlene Zitierweise
[Czernin von und zu Chudenitz, Ottokar Theobald Otto Maria Graf], Il Conte Czernin sugli scopi di guerra e di pace vom vor dem 05. Oktober 1917, Anlage, in: 'Kritische Online-Edition der Nuntiaturberichte Eugenio Pacellis (1917-1929)', Dokument Nr. 990, URL: www.pacelli-edition.de/Dokument/990. Letzter Zugriff am: 28.04.2024.
Online seit 24.03.2010, letzte Änderung am 10.09.2018.